Prigionieri No Tav – Lettera di Niccolò, Claudio e Mattia dal carcere di Torino

Il testo che segue è stato scritto da Niccolò, Mattia e Claudio arrestati il 9 dicembre scorso, insieme a Chiara. I tre compagni, per quanto isolati dal resto dei detenuti, hanno la possibilità di incontrarsi quotidianamente (Claudio e Niccolò condividono la stessa cella e si vedono con Mattia durante le ore d’aria e di socialità). Chiara è invece in un isolamento pressoché assoluto da ormai più di un mese, dato che nella sezione dove si trova non ci sono altre prigioniere in regime di Alta Sorveglianza. La censura cui è sottoposta tutta la loro corrispondenza provoca notevoli ritardi alla posta in entrata ed in uscita e così solo ora è possibile rendere pubblico questo testo scritto quasi un mese fa.
È di ieri la notizia che il Tribunale del Riesame ha rigettato ogni richiesta della difesa, compresa quella di derubricare i reati e le aggravanti di terrorismo. In aula i Pm Padalino e Rinaudo hanno ribadito come la condotta terroristica dei reati contestati ai compagni non sia da ravvisare tanto nelle modalità più o meno violente dell’azione contro il cantiere del maggio scorso, quanto nel contesto complessivo all’interno del quale questa si inserisce: l’opposizione alla realizzazione della Torino-Lione. A preoccupare realmente la procura torinese e l’intero Partito del Tav, è la lotta ormai ventennale contro il treno veloce, il tentativo di dare concretezza a quel No attorno al quale il movimento si è sviluppato.

Sono appena le 4 del pomeriggio e il sole sta calando dietro l’imponente termovalorizzatore metallico, mentre in lontananza si intravedono le prime montagne della valle e l’immaginazione completa i contorni accennati del Musiné. Siamo qui rinchiusi da 10 giorni ma il nostro pensiero viaggia ancora lontano…
Che la procura di Torino stesse preparando qualcosa di grosso lo sapevano pure i sassi. Lo si capiva dal crescendo di denunce contro il movimento, ma soprattutto da quell’intenso lavoro di propaganda con cui inquirenti, mass media e politici hanno cercato di traghettare la resistenza No tav all’ombra di quella parola magica che tutto permette: «terrorismo». Per mesi interi non hanno parlato d’altro, in un mantra ripetuto ossessivamente volto ad evocare una repressione feroce.
Infine hanno preso alcuni dei tanti episodi di lotta di questa estate su cui questo immaginario suggestivo potesse fare più presa e li hanno stravolti e piegati alla loro visione del mondo fatta di militari e paramilitari, gerarchie, controllo e violenza cieca.
Così hanno fatto per giustificare le perquisizioni di fine luglio, così fanno ora per argomentare i nostri arresti.
Ma c’è un abisso tra ciò che vogliono vedere in noi e quello che realmente siamo.
Non ci interessa sapere chi in quella notte di maggio si è effettivamente avventurato tra i boschi della Clarea per sabotare il cantiere – probabilmente non interessa neanche agli stessi inquirenti -. Quello che vogliono è avere oggi qualcuno tra le mani per far pesare la minaccia di anni di galera sul movimento e sulla resistenza attiva, per arrivare tranquilli e indisturbati all’apertura del cantiere di Susa.
Vogliono che le persone restino a casa a guardare dal balcone il progetto che avanza.
Eppure queste persone hanno già gli strumenti per mettersi in mezzo: abbiamo imparato a bloccare quando tutti insieme si gridava «No pasaran» e a passare a colpi di mazza quando il cemento dei jersey ci sbarrava la strada; abbiamo imparato a guardare lontano quando l’orizzonte si riempiva di gas e a rialzare la testa quando tutto sembrava perduto.
Non sarà il terrore che seminano a piene mani a rovinare i raccolti futuri di questa lunga lotta.
Occorrerà continuare a costruire luoghi e momenti di confronto per scambiarsi idee e informazioni, per lanciare proposte e per essere pronti a tornare nelle strade e in mezzo ai boschi.
Si è fatta sera alle Vallette, ma a parte il buio non c’è una gran differenza col mattino, dato che il blindo della cella resta chiuso ventiquattr’ore su ventiquattro: alta sicurezza!
Rispetto ai Nuovi Giunti c’è molta più calma e pulizia, ma l’assenza di contatto umano ci debilita.
La bolgia dei blocchi B, C o F (a parte l’isolamento cui è costretta Chiara) sono un pullulare di storie ed esperienze di vita con cui impastarsi, in cui trovare complicità e solidarietà. Già nel mese scorso, Niccolò, già arrestato a fine ottobre per un altro procedimento, ha potuto constatare come l’eco della lotta contro il Tav sia giunto fin dentro le galere e per molti rappresenti il coraggio di chi ha smesso di subire le decisioni di uno stato opprimente.
Per noi, costretti all’isolamento in una sezione asettica, è di vitale importanza rifiutare la segregazione e la separazione tra detenuti: siamo tutti «comuni».
Anche per questi motivi sarebbe bello se all’interno del movimento si sviluppasse un ragionamento e un percorso su e contro il carcere.
La maggior parte delle guardie delle Vallette vive qua, in dei grandi palazzoni all’interno delle mura, loro non si libereranno mai della galera.
Per quanto in questa sezione ci trattino educatamente, non si tireranno indietro nel farci rapporto su ordine di un superiore quando decideremo di lottare per qualsivoglia motivo.
Allora, coi ricordi che ci teniamo stretti, faremo rosicare questi «portachiavi» per la limitatezza dei loro orizzonti.
«Avete mai visto il mare farsi largo in mezzo ai boschi in un bel pomeriggio di luglio, e scagliarsi e andare contro le reti di un cantiere?»
«Avete mai sentito il calore umano di ogni età saldarsi spalla a spalla mentre gli scudi avanzano, l’asfalto dell’autostrada si fa liquido e le retrovie si riempiono di fumo?»
«Avete mani visto un serpente senza capo né coda o una pioggia di stelle nel cuore di una notte di mezza estate?»
Noi sì, e ancora non ci sazia.
La strada è lunga, ci saranno momenti esaltanti e batoste clamorose, si faranno passi avanti e si tornerà indietro, impareremo dai nostri errori.
Per ora guardiamo il nostro carcere negli occhi e non è facile, ma se «la Valsusa paura non ne ha», noi di certo non possiamo essere da meno.

Comunismo e individualismo – Errico Malatesta

“Ripescando un meraviglioso articolo del mitico Errico Malatesta dove si esprime l’essenza di esser Anarchici al di la’ delle due estreme e antintesi: quella comunista e quella individualista. Scritto nel periodo della passione superuomista degli anni venti , che vedeva il fiorire di  ribelli come Bruno Filippi e Renzo Novatore e Leda Rafanelli.

La bellezza sta’ nella giusta miscela di entrambi tendenze!”

 

Nettlau suppone che la ragione, o almeno una delle ragioni per cui l’anarchismo, dopo tanti anni di propaganda, di lotta, di sacrifizi, non è ancora riuscito a attirare e sollevare le grandi masse sta nel fatto che gli anarchici delle due scuole, comunisti e individualisti, hanno presentato ciascuno la sua teoria economica come unica soluzione del problema sociale, e non sono perciò riusciti a persuadere la gente della realizzabilità delle loro idee.

Io credo in verità che la ragione essenziale del nostro scarso successo sia il fatto generale che nell’ambiente attuale, cioè date le condizioni materiali e morali in cui si trova la massa dei lavoratori e di quelli che pur non essendo lavoratori produttivi sono vittime lo stesso dell’attuale organizzazione sociale, la nostra propaganda non può avere che una portata limitata, la quale si riduce a poco o nulla in certe regioni più disgraziate ed in certi strati della popolazione più tormentati dalla miseria fisica e morale. E credo che solamente a misura che l’ambiente cambia e ci diventa favorevole (il che può specialmente avvenire nei periodi rivoluzionari e per il nostro impulso) le nostre idee possono conquistare un numero sempre più grande di aderenti ed una crescente possibilità di realizzazione. La divisione tra comunisti e individualisti c’entra per poco, poiché essa realmente interessa solo quelli che già sono anarchici e quella piccola minoranza che è in condizione di poterlo diventare.

Ma con tutto ciò resta vero che le polemiche tra individualisti e comunisti hanno spesso assorbito gran parte delle nostre energie, hanno impedito, anche quando era possibile, una franca e fraterna collaborazione fra tutti gli anarchici ed hanno tenuti lontani da noi molti che se ci avessero veduti tutti uniti sarebbero stati attirati dalla nostra passione per la libertà. E quindi Nettlau fa bene quando predica la concordia, dimostrando che per esservi veramente libertà, cioè anarchia, bisogna che vi sia possibilità di scelta e che ciascuno possa accomodare come crede la propria vita, abbracciando la soluzione comunista o quella individualista, o un qualunque grado o una qualunque miscela di comunismo e di individualismo.

Però Nettlau si sbaglia, secondo me, quando crede che il contrasto tra gli anarchici che si dicono comunisti e quelli che si dicono individualisti si basi realmente sull’idea che ciascuno si fa della vita economica (produzione e distribuzione dei prodotti) in una società anarchica. Queste, dopotutto, sono questioni che riguardano l’avvenire lontano; e se è vero che l’ideale, la mèta ultima, è il faro che guida, o dovrebbe guidare, la condotta degli uomini, è anche più vero che ciò che determina più di tutto l’accordo o il disaccordo non è quello che si pensa di fare domani, ma quello che si fa e si vuol fare oggi. In generale, ci si intende meglio, e si ha più interesse a intendersi con quelli che percorrono la stessa via nostra pur volendo andare in un sito diverso, anziché con quelli che pur dicendo di voler andare dove vogliamo andar noi, si mettono per una strada opposta! Così è avvenuto che anarchici delle varie tendenze, malgrado che in fondo volessero tutti la stessa cosa, si son trovati, nella pratica della vita e della propaganda, in fiera opposizione.

Ammesso il principio basilare dell’anarchismo e cioè che nessuno dovrebbe avere la voglia e la possibilità di ridurre gli altri in soggezione e costringerli a lavorare per lui, è chiaro che rientrano nell’anarchismo tutti, e solamente, quei modi di vita che rispettano la libertà e riconoscono in ciascuno l’eguale diritto a godere dei beni naturali e dei prodotti della propria attività.

È pacifico tra gli anarchici che l’essere concreto, reale, l’essere che ha coscienza e sente, e gode e soffre è l’individuo, e che la Società, lungi dall’essere qualche cosa di superiore di cui l’individuo è lo strumento e lo schiavo, non deve essere che l’unione di uomini associati per il maggior bene di ciascuno. E da questo punto di vista si potrebbe dire che siamo tutti individualisti.

Ma per essere anarchici non basta volere l’emancipazione del proprio individuo, ma bisogna volere l’emancipazione di tutti; non basta ribellarsi all’oppressione, ma bisogna rifiutarsi ad essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli di solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini tra di loro, bisogna amare i propri simili, soffrire dei mali altrui, non sentirsi felici se si sa che altri sono infelici. E questa non e questione di assetti economici: è questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione di etica.

Dati tali principi e tali sentimenti, comuni, malgrado il diverso linguaggio, a tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi pratici della vita le soluzioni che meglio rispettano la libertà e meglio soddisfano i sentimenti di amore e di solidarietà.
Quegli anarchici che si dicono comunisti (ed io mi metto tra essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale modo di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza, ma perché sono convinti, fino a prova in contrario, che più gli uomini sono affratellati e più intima è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti gli associati, più grande è il benessere e la libertà di cui ciascuno può godere. L’uomo, essi pensano, se anche è liberato dall’oppressione dell’uomo, resta sempre esposto alle forze ostili della natura, ch’egli non può vincere da solo, ma può col concorso degli altri uomini dominare e trasformare in mezzi del proprio benessere. Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni materiali lavorando da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino, per esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra, rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe ad una vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo, viaggi, studi, contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti umani . . . e non riuscirebbe sempre a sfamarsi.

È grottesco pensare che degli anarchici, per quanto si dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento, sottoposti alla regola comune, al pasto ed al vestito uniformi, ecc.; ma sarebbe egualmente assurdo il pensare ch’essi vogliano fare quello che loro piace senza tener conto dei bisogni degli altri, del diritto di tutti ad una eguale libertà. Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli anarchici uno dei più appassionati ed il più eloquente propagatore della concezione comunista, fu nello stesso tempo grande apostolo dell’indipendenza individuale e voleva con passione che tutti potessero sviluppare e soddisfare liberamente i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche, unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale per diventare uomini nel senso più elevato della parola.
Di più, i comunisti (anarchici, s’intende) credono che a causa delle differenze naturali di fertilità, salubrità e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare individualmente a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso tempo essi si rendono conto delle immense difficoltà per praticare, prima di un lungo periodo di libera evoluzione, quel volontario comunismo universale che essi considerano quale l’ideale supremo dell’umanità emancipata ed affratellata. Ed arrivano quindi ad una conclusione che potrebbe esprimersi colla formula: Quanto più comunismo è possibile per realizzare il più possibile di individualismo, vale a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo di libertà.

D’altra parte gl’individualisti (parlo, s’intende, sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo autoritario – che è stato nella storia la prima concezione che si è presentata alla mente umana di una forma di società razionale e giusta e che ha influenzato più o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di realizzazione – per reazione, dico, contro il comunismo autoritario che in nome dell’eguaglianza inceppa e quasi distrugge la personalità umana, hanno dato la maggiore importanza al concetto astratto di libertà e non si sono accorti o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la libertà reale è condizionata dalla solidarietà, dalla fratellanza e dalla cooperazione volontaria. Sarebbe nullameno ingiusto il pensare che essi vogliano privarsi dei benefizi della cooperazione e condannarsi ad un impossibile isolamento. Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente e che l’uomo, per assicurarsi una vita umana e godere materialmente e moralmente di tutte le conquiste della civiltà, o deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro altrui e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi suoi simili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita. E siccome essendo anarchici non possono ammettere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, debbono necessariamente convenire che per esser liberi e vivere da uomini bisogna accettare un grado ed una forma qualsiasi di comunismo volontario.
Sul terreno economico, dunque, che è quello che apparentemente divide gli anarchici in comunisti e individualisti, la conciliazione sarebbe presto fatta, lottando insieme per conquistare delle condizioni di vera libertà e lasciando poi che l’esperienza risolvesse i problemi pratici della vita. E allora, le discussioni, gli studi, le ipotesi, i tentativi possibili oggi e perfino i contrasti fra le varie tendenze sarebbero tutte cose utili per preparare noi stessi ai nostri compiti futuri.

Ma perché dunque, se davvero sulla questione economica le differenze sono più apparenti che reali e sono in ogni modo facilmente superabili, perché quest’eterno dissidio, questa ostilità che qualche volta diventa vera inimicizia tra uomini che, come dice Nettlau, sono tanto vicini e sono tutti animati dalle stesse passioni e dagli stessi ideali?

Gli è che, come ho detto, la differenza tra i progetti e le ipotesi sulla futura organizzazione economica della società auspicata non è la ragione vera della persistente divisione, la quale invece è creata e mantenuta da più importanti, e soprattutto più attuali, dissensi morali e politici.
Non parlerò di quelli che si dicono individualisti anarchici, e poi manifestano istinti ferocemente borghesi, proclamando il loro disprezzo per l’umanità, la loro insensibilità pei dolori altrui e la loro voglia di dominio. Né parlerò di quelli che si dicono comunisti anarchici, e poi in fondo sono degli autoritari che credono di possedere la verità assoluta e si attribuiscono il diritto di imporla agli altri.

Comunisti ed individualisti hanno spesso avuto il torto di accogliere e riconoscere come compagni alcuni che non hanno di comune con loro che qualche espressione verbale e qualche apparenza esteriore.
Io intendo parlare di quelli che considero veri anarchici. Questi sono divisi sopra molti punti d’importanza reale e attuale, e si classificano comunisti o individualisti, generalmente per tradizione, senza che le cose che realmente li dividono abbiano nulla da fare colle questioni riguardanti la società futura.Tra gli anarchici vi sono i rivoluzionari, i quali credono che bisogna colla forza abbattere la forza che mantiene l’ordine presente per creare un ambiente in cui sia possibile la libera evoluzione degl’individui e delle collettività – e vi sono gli educazionisti i quali pensano che si possa arrivare alla trasformazione sociale solamente trasformando prima gl’individui per mezzo dell’educazione e della propaganda. Vi sono i partigiani della non-resistenza, o della resistenza passiva che rifuggono dalla violenza anche quando serva a respingere la violenza, e vi sono quelli che ammettono la necessità della violenza, i quali sono poi a loro volta divisi in quanto alla natura, alla portata ed ai limiti della violenza lecita. Vi sono dissensi riguardanti l’attitudine degli anarchici di fronte al movimento sindacale; dissensi sull’organizzazione, o non organizzazione, propria degli anarchici; dissensi permanenti, o occasionali, sui rapporti tra gli anarchici e gli altri partiti sovversivi.

È su queste ed altre questioni del genere che bisogna cercare d’intenderci; o se, come pare, l’intesa non è possibile, bisogna sapersi tollerare: lavorare insieme quando si è d’accordo, e quando no, lasciare che ognuno faccia come crede senza ostacolarsi l’un l’altro.
Poiché, tutto ben considerato, nessuno può essere assolutamente sicuro di aver ragione, e nessuno ha sempre ragione.

(1926)