Capitolo 8
La rivolta di Reggio Calabria
8.1 L’insurrezione di un’intera città
Il
7 giugno 1970 la popolazione calabrese si reca alle urne per le sue
prime elezioni regionali. Si tratta di un avvenimento di portata
storica, che dovrebbe riunire i cittadini della regione garantendo loro
maggiore autonomia rispetto al governo centrale, ed offrire nuove
possibilità di sviluppo. Si assiste invece al ritorno al Medioevo, alla
lotta per la supremazia politica di una città sull’altra. Per due
lunghissimi anni Reggio vive una realtà di morti, di rancori, si
trasforma in una piazza d’armi, nel simbolo morale di una rivolta che
viene dal Sud.
Al termine della ribellione la
città conterà cinque morti, dieci mutilati e invalidi permanenti, oltre
cinquecento feriti tra le forze dell’ordine e un migliaio tra i civili.
Milleduecentotrentuno persone denunciate per duemila reati complessivi.
Solo nel periodo luglio- settembre 1970 ci furono diciannove scioperi
generali, dodici attentati dinamitardi, trentadue blocchi stradali,
quattordici occupazioni delle stazioni, due della posta, una
dell’aeroporto, quattro assalti alla prefettura e quattro alla
questura. I danni economici alla città, paralizzata per molti mesi in
quasi tutte le sue attività, furono dell’ordine di diverse decine di
miliardi di lire.
La
rivolta nasce quasi per caso. Reggio Calabria, città di frontiera,
provincia emarginata e priva di qualunque modello di sviluppo, e da
tempo potenziale polveriera per la sua disperata situazione
economico-sociale, esplode contro la convocazione del Consiglio
Regionale a Catanzaro.
Dietro la protesta c’è una
situazione socio-economica di notevole gravità. Non più di cinquemila
persone in tutta la Calabria sono occupate stabilmente in grandi
aziende. A Reggio dodicimila persone vivono in squallide casupole,
alcune delle quali risalivano al 1908, anno del terremoto che aveva
distrutto la città. In queste circostanze, le possibilità offerte dal
settore pubblico erano di vitale importanza. Reggio, una delle città
più povere d’Italia, doveva diventare capoluogo regionale. Lo stesso,
del resto, poteva dirsi di Catanzaro, solo lievemente meno misera.
L’orientamento
ufficiale del governo è di attribuire il capoluogo di regione a
Catanzaro, la sede dell’Università a Cosenza e l’istituzione di un
nuovo polo siderurgico a Reggio, come risarcimento . Nei primi mesi del
1970 i timori e le incertezze che Reggio perda il suo posto di guida al
centro della Regione si diffondono tra la classe politica e, in seguito
sempre più forti, tra la cittadinanza.
La
popolazione insorge il 13 luglio 1970; in mattinata si riunisce a
Catanzaro il Consiglio regionale, nel quale sono assenti i cinque
consiglieri della DC e il socialdemocratico eletti nella provincia
reggina, che inviano un lungo telegramma nel quale sottolineano di non
riconoscere valida la riunione di Catanzaro in quanto il capoluogo
della Calabria è Reggio.
In città, nel frattempo,
si tiene una controassemblea alla presenza di parlamentari della
provincia, consiglieri comunali e provinciali, rappresentanti degli
ordini professionali, sindacati e cittadinanza, nel corso della quale
viene indetto uno sciopero generale. Iniziano i primi blocchi stradali,
e a sera la situazione è già così tesa dafar affluire agenti di polizia
e carabinieri da altri centri della provincia. Comincia a delinearsi
inoltre la spaccatura politica, sia nazionale che locale: il PSIUP
condanna la scelta della Dc di non aver voluto partecipare ai lavori
del neonato consiglio regionale, delegittimando così l’istituzione
regionale, e in una nota “respinge il tentativo della Dc reggina di creare un clima di rissa e divisione”. La direzione provinciale del PLI al contrario esprime “solidarietà a quanti si battono per l’affermazione del diritto di Reggio ad essere capoluogo di regione” e invita i suoi aderenti “ad essere promotori e sostenitori di ogni iniziativa tendente a tal fine”.
Il
14 luglio iniziano le prime barricate, innalzate con qualsiasi cosa
capiti sottomano. In serata la situazione precipita improvvisamente, e
la prima giornata di scontri si conclude con venti feriti e la totale
adesione della popolazione allo sciopero: anche i ferrovieri
aderiscono, abbandonando i convogli in maniera tale che nessun treno
possa proseguire. La cittàèisolata .
Alle 23:30 del
15 luglio un gruppo di carabinieri trova, in una traversa del corso
principale, il cadavere di Bruno Labate, 46 anni , frenatore delle
ferrovie. Si tratta della prima vittima dei fatti di Reggio. Nei giorni
seguenti la guerriglia urbana si fa sempre più cruenta, con il
tentativo di assalto alla questura, l’incendio della stazione
ferroviaria di Reggio Lido, l’interruzione delle strade. I disordini si
estendono anche a diversi centri della provincia reggina;
particolarmente grave è il blocco di Villa San Giovanni, unica via di
collegamento con la Sicilia.
“Sarebbe
parziale guardare ai moti di Reggio unicamente come ad uno scoppio di
ira popolare suscitato da meschini motivi di orgoglio paesano o da
gruppi interessati.
La componente del
campanile c’è ed è anche inquinata da elementi passionali, facinorosi;
ma non è preminente rispetto ad altri di natura economica e sociale. Al
fondo della collera ci sono anzitutto una debilitante povertà e un
senso amaro di frustrazione. Sia nel capoluogo, sia nella provincia è
in corso un processo di decadimento continuo. Di questa situazione
sarebbe parimenti ingiusto dare la colpa ai reggini.”
“La
rivolta di Reggio, perché di questo si tratta, non nasce solo da un
esasperato amore di campanile. C’è, nella tragedia di Reggio, la
protesta di una città che ha un reddito pro capite tra i più bassi
della penisola, la dolorosa illusione di un antico centro glorioso che
crede di trovare la sanatoria ai propri problemi di sviluppo economici
nell’evasione spagnolesca di una “capitale regionale”, tale da
competere col fasto dirimpettaio del siciliano palazzo dei Normanni.
Ci
sono eredità millenarie unite a miti recenti, le une e gli altri
alimentati con tranquilla incoscienza da gruppi locali volti ad una
gara spietata e cinica per il potere. Impossibile classificare la
rivolta di Reggio, come già quelle di Battipaglia ed Avola, sotto una
qualsiasi prospettiva politica. Fermenti di anarchismo atavico, tipici
delle classi diseredate protagonisti delle “jacqueries” di una volta,
si uniscono con un moto insondabile di negazione e di rivolta nella
piccola borghesia intellettuale e professionista del sud, umiliata in
tutti i suoi ideali, tenace nella fedeltà a certe tradizioni o a certi
fantasmi di grandezza.”
Si tratta di una rivolta a suo modo anomala, nella quale partecipano anche donne e bambini.
“A
difesa delle barricate erette di nuovo a S.Caterina e sul ponte di
S.Pietro, c’erano questa mattina anche donne e bambini. Le loro istanze
per un domani migliore devono essere accolte dal Governo che non può più continuare ad ignorare cosa sta accadendo da cinque giorni in questa città tanto tormentata.”
“Le
donne, violentando ogni tradizione, che non è certamente quaggiù una
tradizione patriarcale, hanno organizzato una chiassosa, pittoresca,
arroventata “uscita”…Non sono come le donne di Aristofane, scioperanti
pacifiste e di alcova: sono, viceversa, più guerrafondaie e piazzaiole
dei mariti. Tante Anita Garibaldi, tante Evita Peron, tante contessa
Maffei…Una distinta signora, moglie di un ingegnere, al volante di una
“Sprint”, con i capelli arruffati e gli occhi ardenti, spiegava oggi,
mentre si apprestava a ripartire rombante: “Ho mandato sulle barricate
la cameriera, figurarsi se non ci vado io!”.
Sono
scontri surreali, nei quali la violenza dei dimostranti spinge ad
incendiare fabbricati ed assaltare pubblici edifici, bloccare le vie di
comunicazione e i ripetitori tv, innalzare le barricate ma- allo stesso
tempo- abbandonarle per una tacita pausa nei combattimenti all’ora di
pranzo e della pennichella pomeridiana.
“Un
capitano dell’arma così raccontava stamani che durante i disordini,
mentre era impegnato in una scaramuccia a contatto con i rivoltosi, e
volavano le pietre e le bombe lacrimogene, gli è caduta la pistola. È
stato uno dei dimostranti a raccoglierla e restituirgliela, fuggendo
verso i compagni per riprendere la lotta. Ai reparti impiegati per
l’intera città ed in difficoltà per il rancio, gruppi di ragazze hanno
portato cestini di viveri e bottiglie di Coca Cola senza certo pensare
di tradire i fratelli impegnati sulle barricate. Una isospettabile
cavalleria ha distinto i rivoltosi anche nelle giornate più calde. Si
tenga conto che a Reggio, come in tutta la Calabria, esiste il maggior
numero di porto d’armi per fucile da caccia e pistole. Da queste armi
non è partito un colpo nemmeno quando l’odio è traboccato dopo la morte
del ferroviere.
Rarissimi sono stati i
saccheggi. Solo quando è andata in frantumi la vetrina di un negozio di
banane, molti ragazzi hanno fatto una scorpacciata degli esotici
frutti. Nei quartieri più miseri sono state divelte le tabelle della
segnaletica stradale, incendiati gli autobus, ma le macchinette per la
distribuzione delle sigarette hanno ancora tutti i vetri intatti e le
“nazionali esportazione” sono tutte al loro posto. Alla stazione lido
sono state date alle fiamme le strutture dello scalo ferroviario, ma
sono stati risparmiati i libri della rivendita. Nelle cabine
telefoniche stradali sono stati infranti i cristalli e strappati i
fili, ma gli apparecchi muti nessuno se li è portati via. Una rivolta
davvero singolare dunque, nella quale tutte le forme di scontento, per
qualsiasi ragione si sono sommate, senza che nessuna prevalesse ed
hanno giocato un loro ruolo, ognuna per proprio conto, in un amalgama
di solito difficile a realizzarsi.”
Ma la protesta assume anche toni stravaganti:
“Se
volete vincere la battaglia per Reggio capoluogo, diceva stamattina ai
dimostranti un anziano signore col cappello di paglia, dovete
rinunciare alla violenza e fare ricorso alla fantasia. I dimostranti
l’hanno ascoltato.”
La
popolazione si dirige verso un santuario della città che ospita un
antico quadro della Vergine, la “Madonna della Consolazione”e, per
tutta la giornata, lo trasporta in processione per le vie della città: “Questa è stata la giornata della Madonna rapita”; “Un cartello precedeva la processione senza preti. C’era scritto: Maria, ci sei rimasta solo tu!”
In
questa atmosfera di guerriglia urbana, un evento riscuote gli animi dei
dimostranti e riaccende le polemiche: il 22 luglio, nei pressi della
stazione di Gioia Tauro, deraglia la Freccia del Sud.
Iniziano
a rincorrersi le voci di un possibile attentato doloso al treno, in
relazione ai disordini di Reggio,ma tutti gli organi istituzionali, dal
questore Santillo al prefetto De Rossi, smentiscono decisamente e
archiviano il tutto come uno sciagurato incidente.
In
un clima di completo abbandono, in cui la città viene lasciata sola a
se stessa e non c’è un rappresentante del governo o uno degli uomini
politici di origine calabrese che fronteggi la popolazione, la scena è
tutta per i capipopolo e l’iniziativa dei singoli, da uno come
dall’altro fronte.
Uno dei nomi legati a futura
memoria ai moti di Reggio è quello di Francesco (Ciccio) Franco. Il
missino, che copiava da Mussolini alcune pose oratorie e aveva coniato
la parola d’ordine di “boiachimolla”, si era impossessato del comando
di uno dei più grandi moti di piazza del ‘900 meridionale. Fino alle
barricate, Franco avrebbe potuto essere considerato un qualsiasi peone
del partito di estrema destra. Sindacalista Cisnal dei ferrovieri,
consigliere comunale in continuo dissidio con la federazione locale,
pochi giorni prima dello scoppio della rivolta non era stato nemmeno
eletto alle prime elezioni regionali. Franco diventerà il capo della
folla che conquisterà con frasi ad effetto: parla di riscatto del Sud,
di destino offeso e di necessità a rivoltarsi. Riesce intercettare le
ansie e le aspettative tradite di una intera popolazione, spesso
sottovalutate dai partiti politici.
Un
altro personaggio che legherà il suo nome ai fatti di Reggio è Piero
Battaglia, sindaco Dc della città dal 1966, che insieme al suo partito
politico forma un comitato politico unitario che coordinerà le prime
fasi della rivolta. Non dotato dello steso carisma di Franco, il
sindaco Battaglia riesce comunque in un primo momento a coalizzare il
moto di piazza e le principali forze politiche, ad esclusione di Pci e
Psi, attraverso assemblee pubbliche, comizi, manifestazioni di piazza e
soprattutto con lo sciopero generale che immobilizza a più riprese la
città.
Trent’anni dopo in un’intervista ad un quotidiano locale, Battaglia dichiara:
“Lo
Stato è stato manforte della polizia, dei carri armati. I reparti
peggiori, quello di Padova soprattutto, sono stati mandati per punire
la città. Neanche Fanfani, al lido Cenide di Villa San Giovanni, ebbe
l’intuizione di quello che stava per accadere e disse che la Regione
riguardava Quaranta applicati, pochi uomini. Neanche lui ne capì
l’importanza.”
Un ulteriore elemento da evidenziare è la totale incapacità di comunicazione tra i partiti e la piazza.
Nel
corso della rivolta lo Stato viene a mancare sia nella sua dimensione
istituzionale che in quellapolitica. Per quanto riguarda il primo
aspetto, l’unico esponente visibile della Repubblica a Reggio è il
questore Emilio Santillo, che con grande padronanza di nervi riesce a
mantenere il controllo della situazione; è evidente però come la tenuta
delle istituzioni democratiche in una città non possa essere delegata
al singolo. Nessun rappresentante del Governo si reca a Reggio nei
lunghi mesi della sollevazione popolare, instillando nella piazza la
convinzione di non avere “protettori” a Roma della stessa importanza
delle altre due province.
La
prima “fase calda” della protesta si esaurisce tra la fine di luglio e
agosto. Inizia un periodo definito dai dimostranti stessi di “vigile
attesa”, linea che si definisce opportuna fino “alla prossima
riunione del Consiglio regionale, di modo che non venga pregiudicato,
attraverso intuibili camarille e basse manovre, il sacrosanto diritto
della nostra città al capoluogo”.
Il
secondo scoppio di violenza ha inizio nel settembre 1970. Questa volta
si scatena una vera e propria guerriglia urbana. L’apice della violenza
si raggiunge il 17 settembre con l’uccisione, apparentemente senza
motivo, di Angelo Campanella da parte della polizia. L’uomo, un autista
dell’azienda municipale di trasporti e padre di 7 figli, viene colpito
mentre di ritorno a casa nel popolare quartiere “Ferrovieri” si trova
casualmente coinvolto negli scontri sul ponte Calopinace.
Poco
dopo l’annuncio della morte di Campanella, viene arrestato per
istigazione a delinquere in base all’art. 414 Francesco Franco, leader
del Comitato d’azione. Contro di lui era già stato spiccato mandato di
cattura dal procuratore della Repubblica; stessa sorte di Franco
subisce l’ex comandane partigiano Alfredo Perna, accusato dello stesso
reato.
La notizia della morte di Campanella e degli arresti fa rapidamente il giro della città, eccitando gli animi.
“Per
le vie di Reggio avveniva il finimondo. I dimostranti si sono
abbandonati a devastazioni d’ogni genere distruggendo la segnaletica
stradale, incendiando masserizie e copertoni d’auto, saccheggiando
perfino alcuni negozi…Corso Garibaldi ha preso l’aspetto di un campo di
battaglia dove l’aria era irrespirabile per il fumo provocato dagli
incendi di stracci cosparsi di carburante e dai candelotti.”
La
ferrovia brucia in più punti, tutti i treni sono fermi. I dimostranti
svaligiano tre armerie, impossessandosi di centoventi fucili e pistole,
oltre ad un ingente quantitativo di munizioni.
In
città si spara ovunque. Cinquecento dimostranti circondano il palazzo
della Questura e costringono le forze dell’ordine a riparare dentro. Si
sentono colpi di fucili da caccia, raffiche di mitra, esplosioni di
bombe Balilla.
“Si è
trattato di un vero e proprio assedio, nel corso del quale, a più
riprese, ai colpi d’arma da fuoco sono seguiti lanci di grossi petardi
e bottiglie incendiarie. C’è stato anche un tentativo di sfondare il
portone che è stato respinto. Durante questi drammatici momenti il
brigadiere Curigliano è stato colto da un malore cardiaco: dalla
Questura è stata chiamata telefonicamente un’ambulanza che è giunta
però con molto ritardo, data la situazione. Il sottufficiale, quando ha
potuto essere soccorso e trasportato, era agonizzante ed è morto poco
dopo.”
La
mattina successiva, dall’uno e dall’altro fronte, si conteranno 2 morti
e 12 feriti; molti tra i dimostranti non hanno fatto ricorso alle cure
dei medici degli ospedali per non essere identificati.
Interviene anche il presidente Saragat che in un messaggio fa appello “a
tutti i cittadini di Reggio Calabria perché nella rinnovata coscienza
di ciò che la loro città rappresenta per tutti gli italiani ritrovino
la via della serenità e della concordia”.
Gli
scontri proseguono. La rabbia dei dimostranti si rivolge ora anche
contro i giornalisti, colpevoli secondo la popolazione di rappresentare
un’immagine distorta della rivolta. Alberto Cavallaro viene querelato
dopo un intervento sulla Rai-Tv, mentre alcuni – tra i quali l’inviato
di “Panorama” Lino Rizzi- vengono addirittura aggrediti fisicamente in
città.
Il 21 settembre scatta
l’operazione “città pulita”, preparata dalla Questura con vere e
proprie strategie militari. L’obiettivo è di liberare i due quartieri
assediati di Sbarre e S. Caterina.
In brevissimo
tempo, e senza alcun incidente, grazie all’impiego di mezzi cingolati
(M-113) e di autocarri sono rimosse quasi tutte le barricate. Gli
abitanti del rione si limitano a guardare.
A lavoro
ultimato si hanno 47 camion carichi di materiale oltre a 50 carcasse di
auto nel solo rione di S.Caterina. Dopo tre giorni di paralisi totale
riparte il primo treno. Abbattute le ostruzioni, agenti e carabinieri
presidiano le piazze, gli edifici pubblici, il porto, le stazioni
ferroviarie. Reparti della Celere e dei battaglioni meccanizzati dei
carabinieri presidiano le vie d’ingresso alla città.
“È
finita davvero, dunque? Sta di fatto che Reggio riprende a vivere…Una
città non può suicidarsi. Non c’è la normalità, si capisce. Non c’è la
calma degli animi, ma c’è il desiderio di trovare una via d’uscita.
Rimangono l’amarezza e una sorta di rabbia impotente. Componenti che
non bisogna sottovalutare. Proprio da qui potrebbe scaturire una nuova
esplosione che sarebbe la più pericolosa. Guai sei reggini avessero la
sensazione di essere stati sconfitti.
La
componente maggioritaria dello scoppio d’ira è la componente
economico-sociale, non c’è dubbio. Se il professionista è sceso in
piazza accanto al “Lazzaro” di periferia, se l’operaio s’è affiancato
agli studenti, non è accaduto per caso o per gioco. Teniamo poi
presente che le vere battaglie sono avvenute nei rioni popolari,
con partecipazione di giovani, ragazze, uomini, con l’aiuto di donne
che sono mamme, spose, talvolta nonne. Chi non l’ha vista questa
rivolta stenta a crederlo. Ecco perché la risposta ai reggini non può
essere se non politica. Il naturale interlocutore dell’opinione
pubblica devono essere Governo e Parlamento”
La
rivolta finisce, così, con una tregua imposta; lascia la città
stremata, in condizioni economiche disastrose: non si produce, non si
commercia, ogni attività è ferma, le saracinesche sono abbassate. Le
linee di comunicazione sono precarie e da ripristinare; i telefoni
funzionano poco e male. Strade, stazioni ed aeroporto sono parzialmente
inagibili.
8.2 Le interpretazioni
Le
letture politiche e le interpretazioni dei fatti di Reggio sono
molteplici e spesso contraddittorie. Di fronte ad un evento, come
quello della sollevazione popolare calabrese, che sfugge ad ogni
catalogazione per le sue caratteristiche peculiari e distintive, il
tentativo di comprensione risulta difficoltoso.
Se
inquadrati nel contesto politico generale del Paese, i fatti di Reggio
costituiscono una contraddizione improvvisa, ma non del tutto
imprevedibile. Su un piano più specificatamente regionale, la lotta di
campanile si lega e si confonde con una battaglia politico-personale di
asprezza inusitata. Giacomo Mancini è investito da una campagna
denigratoria che culmina, proprio durante i moti, nella campagna
scandalistica organizzata dal giornale fascista “Candido” e imperniata
sulle cosiddette “aste truccate” dell’Anas.
Le
ormai numerose ricostruzioni dei moti di Reggio hanno sottolineato
questi nessi col contesto nazionale e con gli avvenimenti locali, ma
hanno anche evidenziato abbondantemente che la rivolta è nata
all’interno dei partiti, e in particolare tra il notabilato locale
della Dc e del Psdi, il quale ha scatenato la lotta per “Reggio
capoluogo” per confermare sul piano burocratico -amministrativo un
predominio che sembrava vacillante. Nel 1970, dopo l’istituzione delle
regioni, quei notabili hanno da constatare, in forma di ulteriore
sanzione istituzionale, la propria marginalità rispetto ad una prassi
politica saldamente agganciata alle leve politiche dello Stato, che
solo i “cosentini” Mancini e Misasi hanno dimostrato di conoscere fino
in fondo.
Inoltre della rivolta reggina si fa poi
protagonista la piccola borghesia impiegatizia. Questa reagisce alla
precarietà economica e alla perdita di identità sociale e culturale,
dovuta alle trasformazioni dell’ultimo decennio, riscoprendosi capace
di un ruolo di mediazione politica e culturale tra le classi
subalterne, urbane o urbanizzate, e le classi dominanti locali. Ed è
questo uno dei dati più interessanti: il ceto medio impiegatizio che si
fa ceto dirigente della città in rivolta, in una situazione dilaniata
tra sottosviluppo ed emarginazione da una parte, neocapitalismo e
modernizzazione dall’altra.
Il segno politico della
mediazione tra questi elementi, che diventerà prevalente nella rivolta,
cioè quello fascista, è paradossalmente “difensivo”, nella misura in
cui si richiama, in un modo o nell’altro, ai valori “traditi” della
cultura locale. Non è un caso che i fascisti, raccogliendo il bisogno
popolare di avere un nemico facilmente riconoscibile e tangibile,
demonizzino in modo pesante e volgare l’immagine-simbolo di Mancini. Un
discorso analogo, anche se ovviamente ribaltato, si può fare per il
ruolo attribuito alla statua della Madonna, portata in processione per
le strade della città in rivolta. Si tratta in questo caso di un
tentativo di sacralizzazione della lotta, che rimanda alla cultura
delle classi contadine, ma dà anche la misura della sconfitta: in una
situazione di deprivazione e d’impotenza, l’estremo tentativo consiste
nell’affidare al rito propiziatorio la possibilità di immettersi in un
circuito di potere.
Come è stato anche osservato,
l’invocazione del santo protettore o della Madonna è una sorta di
trasposizione religiosa del meccanismo clientelare di raccomandazione.
I paradossi della situazione calabrese sono tutti simbolicamente
racchiusi in questo scarto, tra la tecnica spettacolare e
trionfalistica delle campagne elettorali manciniane, attente ai modi di
organizzazione del consenso di una società dell’informazione, e
l’estremo ricorso al sacro dei dimostranti reggini, che allude a una
maglia politica e clientelare locale non più in grado di reggere alla
complessità e ai ritmi crescenti delle strutture e dei rapporti
politici.
A sinistra si guarda alla rivolta con imbarazzo e non senza qualche miopia.
I
partiti ufficiali dimostrano una completa incapacità di analisi; nel
corso dei disordini prevarrà un senso di immobilismo, tanto da
provocare da parte della sinistra più estrema le accuse di avere
richiesto una maggiore repressione del moto popolare.
Gli anarchici dell’Internazionale situazionista scrivono:
“Il
18 ottobre i comunisti di Reggio ammettono soltanto di “avere perso il
treno”, mentre in realtà hanno perso anche i ferrovieri”.
Un
sostanziale abbaglio viene preso però da queste forze della sinistra
più estrema e da alcune frange del movimento anarchico, che
semplificando i caratteri della rivolta scambiano i fatti di Reggio per
la rivoluzione.
“Presto verrà che le bandiere
rosse saranno issate dal popolo di Reggio sui quartieri in lotta. E
allora cosa diranno i filistei che hanno volutamente confuso il
terrorismo fascista con la ribellione di un popolo sfruttato? Dovranno
nascondersi davanti ai lavoratori che li hanno ascoltati non sapendo la
vera situazione che si è creata a Reggio Calabria!”
“Ormai
qualsiasi pretesto è buono in Italia per iniziare una rivolta sulla via
della rivoluzione sociale: a Caserta una partita di calcio, a Reggio
Calabria un’assemblea regionale. Non è lo Stato che sceglie di
“abdicare”, come dice la stampa di destra: è al contrario il
proletariato che con le sue lotte rivoluzionarie lo costringe sempre
più decisamente ad abdicare.
Un
tentativo di analisi più complessa è realizzata dal Gruppo Anarchico
Kronstadt di Milano;in un ciclostilato del 29 ottobre 1970, dopo aver
identificato nelle componenti operanti nella rivolta quella borghese
che afferma i propri interessi mafiosi, e quella proletaria che esprime
l’insofferenza per la propria situazione, scrive:
“Assurdo
è però vedere in questa lotta l’espressione più alta dello scontro di
classe in Italia solo per la sua violenza come sembrano fare i compagni
di Lotta Continua che sono arrivati a definire Reggio “capitale del
proletariato”.
La violenza della lotta non
basta a qualificarla come rivoluzionaria ma unico elemento di giudizio
valido è il rapporto in cui si pone per forme e contenuti rispetto alla
crescita della lotta di classe e quindi la sua capacità di
generalizzarsi e di essere fatta propria da tutta la classe.”
8.3 L’intervento degli anarchici nella rivolta di Reggio
Il
gruppo anarchico partecipa attivamente alla rivolta della città; ma lo
fa con un ruolo diverso. Per gli anarchici, il capoluogo non è un vero
problema; i problemirealisono la disoccupazione, la miseria, la mafia,
la corruzione della classe dirigente. Si adoperano a modo loro per
cercare- soprattutto- il dialogo con la popolazione, per tentare di
interpretare il disagio con gli strumenti di comprensione che hanno in
più rispetto ai “compagni” anarchici lontani, che poco conoscono la
realtà depressa della città.
Soprattutto per quelli
tra di loro, come Casile e Scordo, che provengono dai quartieri più
coinvolti nei disordini, i vecchi rioni ancora fatiscenti abitati dai
pescatori e dai ferrovieri,e vivono le condizioni di vita disperate che
spingono i dimostranti sulle barricate, diventa fondamentale immettersi
nella rivolta con istanze diverse e nuove.
Il
gruppo degli anarchici reggini elabora in un primo tempo una serie di
proposte concrete da portare sulle barricate: il lavoro giovanile, le
agevolazioni per gli immigrati di ritorno in Calabria, l’allontanamento
della Polizia dalla città, lo scioglimento delle istituzioni repressive.
Anche
loro probabilmente, in un primo tempo, scambiano l’insurrezione per
quel moto di piazza tanto atteso come gli anarchici situazionisti o i
marxisti-leninisti, o comunque tentano di indirizzare la rabbia della
popolazione, ma il tentativo fallisce. Gli anarchici si scontrano
contro una rivolta che non è più ormai- o forse non è mai stata- solo
un moto popolare, ma che contiene una serie di elementi politici non
facilmente individuabili. Sulle barricate sono arrivati in breve tempo
gli agitatori di destra, che si sono mescolati ai dimostranti. La
situazione è sfuggita di mano ai partiti eagli uomini politici, per
cadere sotto il controllo dei capipopolo.
Quando
Adriano Sofri, allora leader di Lotta Continua, giunge a Reggio per
convincere alcuni gruppi extraparlamentari e gli anarchici ad inserirsi
nella rivolta per poi pilotarla a sinistra, Casile, Scordo e il gruppo
anarchico rifiutano.
In agosto, in collaborazione
con la FAI, arriva da Roma una sofisticata macchina fotografica con la
quale gli anarchici iniziano un’inchiesta di controinformazione.
Casile, Scordo e Aricò documentano, attraverso quelle immagini, le
presenze neofasciste nella rivolta. Avanguardia Nazionale di Delle
Chiaie, Ordine Nuovo di Rauti e il fronte nazionale di Junio Valerio
Borghese avevano avuto, con il MSI, un peso determinante tramite gli
attivisti locali e quelli fatti arrivare appositamente da altre parti
d’Italia. Un rullino di foto scattate dagli anarchici durante i
disordini sparisce; Casile e Scordo vengono minacciati.
Il
clima è sempre più teso: ben presto accanto alle barricate inizia
l’offensiva del tritolo e degli attentati. Su questa nuova pista
iniziano a muoversi le indagini dei ragazzi: per loro i legami tra il
deragliamento del treno a Gioia Tauro, che non convince né per la
dinamica né per la fretta con il quale è stato archiviato, e la
presenza di elementi di estrema destra in città sono sempre più
evidenti. Iniziano, quindi, una vera e propria inchiesta di
controinformazione della quale nulla ci è rimasto se non la
testimonianza da essi fornita ad alcuni amici e familiari.
Un
altro episodio che vede al centro i ragazzi è la manifestazione che
questi organizzano in collaborazione con il pastore battista di Reggio,
Francesco Casanova, e con il pastore valdese Lupis di Messina, per
interporsi tra i dimostranti e la polizia.
La protesta si svolge sul Corso principale della città, teatro nei giorni più caldi della rivolta di assalti e sbarramenti.
Come ricorda Tonino Perna, cugino di Aricò:
Ho
partecipato il 7 settembre del ’70, assieme alla Chiesa evangelica di
Reggio, all’unica manifestazione pacifista di quel periodo, in cui
c’era scritto “Via la polizia da Reggio” e “Basta con la violenza”.
Sono arrivati i fascisti, e ci hanno rotto i cartelli, e c’è stata
questa scena bellissima che Angelo Casile veniva preso a schiaffi da un
noto fascista locale e diceva bravo, bravo, prendimi a schiaffi, così
fai il servizio dei padroni che ci vogliono dividere.
Santo
Ielo, leader della CGIL reggina, viene intervistato qualche mese dopo
la morte dei ragazzi per spiegare i moti da sinistra, e riporta le
parole scritte da Angelo Casile in un volantino:
“Padroni bastardi, del capoluogo non sappiamo che farcene!
Il
capoluogo va bene per i burocrati, gli speculatori, i parassiti, i
padroni e i politicanti più grossi; va bene per le manovre dei
caporioni locali, per il sindaco Battaglia e per i caporioni falliti.
Va
bene per il tentativo di questi “uomini importanti” di accrescere il
loro potere locale, la loro area di sfruttamento, facendoci sfogare
anni di malcontento con la falsa lotta per il capoluogo, dopo che hanno
mandato i nostri figli e i nostri fratelli a lavorare all’estero e
continuano a sfruttarci nella stessa Reggio
I
cosiddetti “datori di lavoro”, che in realtà sono luridi padroni, sono
i nostri nemici, quegli stessi che ci mandano allo sbaraglio per il
capoluogo, per la Madonna o per la squadra di calcio.
Il capoluogo non ci serve!Lottiamo per farla finita con l’emigrazione, con la disoccupazione, con la fame!
Nicola Ad elfi, «La Stampa», 16 luglio 1970
Giovanni Spadolini, «Il Corriere della Sera», 16 luglio 1970
«La Gazzetta del Sud», 18 luglio 1970
Francobaldo Chiocci, «Il Tempo», 21 luglio 1970
Sandro Osmani,«Il Messaggero», 19 luglio 1970
Gaetano Tumiani, «La Stampa», 31 luglio 1970
Alfonso Madeo, «Il Corriere della Sera», 1 agosto 1970
Franco Pierini, «Il Giorno», 1 agosto 1970
Cfr. capitolo successivo sulla strage del treno
“Il Quotidiano”, Dossier “Reggio Calabria 30 anni dopo”
Comunicato diffuso dal Comitato Unitario
Angelo Frignani, “Il Tempo”, 18 settembre 1970
Bruno Tucci, “Il Messaggero”, 18 settembre 1970
Egidio Sterpa, “Il Corriere della Sera”, 22 settembre 1970
In realtà la conclusione della rivolta di Reggio Calabria è da
stabilire nel febbraio 1971, quando il presidente del consiglio Emilio
Colombo annuncia che a Reggio Calabria sorgerà il V centro siderurgico
nazionale con un investimento di 3 mila miliardi di lire e oltre 10
mila posti di lavoro. La città e i reggini accettano la proposta e
mettono fine alle violenze.
Il racconto in queste
pagine si limita solo ai primi mesi della rivolta per due motivi: da un
lato furono i più significativi, dall’altro perché maggiormente
attinenti alla vicenda principale dei cinque anarchici.
Vittorio Cappelli, Politica e politici,in “Storia d’Italia – La Calabria”, Einaudi 1985
“Ben
grave è la posizione assunta dal Pci, che accusa il popolo di seguire i
fascisti, e che chiede all’infame governo Colombo una maggiore azione
repressiva. Così il governo colpisce i lavoratori in lotta mentre nel
resto d’Italia parecchi operai si trovano disorientati e non agiscono
in difesa del popolo di Reggio Calabria ( Manifesto stampato a Milano il 3 febbraio 1971 dall’Unione dei marxisti- leninisti)
Manifesto dell’Unione dei marxisti- leninisti, Milano 1971
Internazionale Situazionista, Gli operai d’Italia e la rivolta di Reggio Calabria