“A – Cerchiata” da Eléuthera.

“A – Cerchiata” è il titolo del volume
edito da Eléuthera. 128 pagg. ill., euro 20,00.
Per ulteriori info: www.eleuthera.it

Graffitata
sui muri della protesta, ma impressa anche su zainetti, magliette,
ciondoli e cappellini, fino al più improbabile intimo maschile, la
A-cerchiata è un segno talmente conosciuto e riconosciuto che ha finito
con l’essere considerato un simbolo tradizionale dell’iconografia
libertaria.
In realtà, come ci raccontano i suoi ideatori, ha poco
più di quarant’anni: la A-cerchiata nasce come progetto nel 1964 a
Parigi, all’interno di una piccola rete di giovani anarchici, ma
comincia la sua vita pubblica nel 1966 a Milano sui volantini e
manifesti della Gioventù Libertaria. Di lì a poco, l’esplosione del
1968 – e la provvidenziale invenzione delle bombolette spray – farà
rotolare il simbolo nelle strade di tutto il mondo.

Questa inedita storia per immagini, insieme ai racconti che le
accompagnano, ne ripercorre la sorprendente, e spesso bizzarra,
diffusione planetaria sulla spinta della passione libertaria prima e
della cultura punk poi, fino al recente sfruttamento commerciale.

Un viaggio nell’immaginario contemporaneo che dà conto delle molteplici
interpretazioni – spesso inaspettate, talvolta contraddittorie – di un
simbolo nato con una forte connotazione specifica e diventato nel tempo
uno dei segni più usati per significare non solo anarchia, ma anche
rivolta, rifiuto, anticonformismo, trasgressione nelle più svariate
declinazioni.

 

Milano 1966 – Milano 2008
Intervista
ad Amedeo Bertolo

Amedeo
Bertolo aveva 25 anni quando, nel 1966, tracciava su matrici per
ciclostile le prime A-cerchiate «italiane». Docente universitario, si è
sempre occupato di editoria libertaria. Nel 1971 è tra i fondatori del
mensile «A rivista anarchica» e dal 1986 è uno dei responsabili di
Elèuthera.

Sei uno dei padri della A-cerchiata…

Solo
un padre adottivo. La A-cerchiata è stata ideata e «lanciata» a Parigi
nel 1964. Ma il lancio è stato un flop. A Milano, due anni dopo,
abbiamo ripreso e rilanciato l’idea. Questa volta il lancio ha
funzionato.

Quando hai cominciato a fare A-cerchiate ti aspettavi in qualche modo questo successo mondiale?

No.
Nessuno di noi della Gioventù Libertaria si aspettava gran che. O forse
sì: l’unico che fece qualche obiezione all’adozione del simbolo, lo
fece argomentando che era troppo semplice e dunque «falsificabile».
Chiunque avrebbe potuto firmare così qualsiasi cosa. Ne temeva cioè un
eccessivo successo (la sua generale identificazione come «firma»
anarchica) per potenziali usi distorti o comunque indesiderati.

Riesci
a ricostruire in che modo la A-cerchiata sia arrivata in Germania,
negli anni Settanta, diventando il simbolo degli Autonomen tedeschi? È
stata modificata o si è mantenuta quella «originale»?

Non
so come sia avvenuto il passaggio. Ormai la A-cerchiata aveva
cominciato a viaggiare libera per il mondo. Ma posso immaginare che la
scelta della A-cerchiata come simbolo sia stata fatta dagli Autonomen
tedeschi per connotarsi in senso libertario rispetto agli autonomi
italiani, di formazione marxista, che firmavano con la
falce-e-martello. E posso immaginare che la «loro» A fuoriesca dal
cerchio (come quella dei punk) per comunicare un ulteriore senso di
«rottura» dell’ordine e di eterodossia anche rispetto alla tradizione
anarchica. Ma forse è stata solo una casuale scelta estetica,
moltiplicatasi per imitazione. Oggi quella A-cerchiata è usata dagli
anarchici indifferentemente con quella «canonica», un po’ ovunque.

Qual è l’uso più originale, o che ti ha fatto più piacere, tra tutte le declinazioni della A-cerchiata che hai incontrato?

Ti
posso dire qual è quella che mi piace di più, per la sua eleganza
formale. È quella disegnata nel 1972 da mio fratello, Gianni, per la
testata della rivista anarchica «A»: una A con le grazie, in negativo
su fondo circolare nero, che è una mutazione della precedente testata,
anch’essa molto bella, a mio parere.

Sembri
piuttosto affezionato all’uso «filologicamente corretto» del simbolo:
le tue A-cerchiate preferite stanno nei margini del cerchio, non
sbordano, non hanno fronzoli… cosa ne pensi delle interpretazioni,
degli usi e abusi, dal punk al mondo della moda?

Pregevole
flessibilità del segno. E penso che siano inevitabili gli usi impropri,
abusivi, stravolti, commerciali di un segno che si è inscritto
nell’immaginario collettivo.

È
incredibile che, nel giro di poco più di quarant’anni, la A-cerchiata
si sia inserita talmente bene nei flussi dell’immaginario da perdere di
fatto le sue origini storiche a favore di una sorta di mitologia (come
le leggende diffuse su Wikipedia: la A-cerchiata attribuita a Proudhon,
quella avvistata sull’elmetto di un miliziano spagnolo…).

In un recente romanzo (Death at Victoria Dock,
di Kerry Green), ambientato a Melbourne nel 1928, un gruppo di emigrati
lettoni usa come segno distintivo la A-cerchiata tatuata sulla
clavicola (gli uomini) e sul seno (le donne). Mi aspetto che su
Internet prima o poi qualcuno vi si riferirà per «dimostrare»
l’anzianità del segno… Che nascano leggende attorno a un simbolo è
forse inevitabile e denota il suo successo. E poi forse piace più
un’origine mitica di una tutto sommato banale.

A
questo proposito, ti lancio una provocazione: l’A-cerchiata non ha
forse bruciato le tappe, fino a trasformarsi da simbolo unificante dei
movimenti anarchici in simbolo tuttofare, per indicare genericamente
«caos»? La cosa ti disturba o dopo tutto va bene così?

Mi
sembra che il significato di «caos» (magari nel senso della teoria del
caos) o meglio di rivolta contro-tutto-e-contro-tutti (persino nella
sua versione banalizzata e consumistica) possa convivere con la
connotazione più propriamente anarchica. Effetti non previsti di moto
caotico.

Mi è capitato di incontrare
dei ragazzi di Pieve Vergonte, un paese della Val d’Ossola, che mi
parlavano della A-cerchiata come di un simbolo in origine anarchico, ma
arrivato a loro attraverso il punk inglese… Dobbiamo rassegnarci a
una cultura anglo-sassone che sembra fagocitare tutto (e magari
«mettere sotto copyright» le prossime invenzioni per mantenerne la
correttezza filologica), oppure è un obiettivo sensato parlare di
anarchia in tante lingue, in molti modi, scommettendo sulla traduzione
culturale e la re-interpretazione creativa?

La seconda che hai detto.

Dopo quarant’anni la A-cerchiata è invecchiata come la fiaccola anarchica oppure può ancora funzionare?

Il
simbolo mi sembra ancora efficacissimo, sia come segno di rivolta
antiautoritaria sia come «firma» dei molteplici anarchismi
contemporanei. Il problema rimanda piuttosto alle forme e ai contenuti
delle rivolte e degli anarchismi, ma questo è un altro discorso.


Pino Cacucci
scrittore

Ne
ho viste scorrere dai finestrini dei treni, e continuo a vederne. Ogni
volta mi rincuorano: qualcuno, su quel muro, si è manifestato
libertario e refrattario al potere. Ne ho viste persino dai finestrini
di corriere stravaganti a Città del Messico, anche se spesso avevano le
zampe lunghe, che fuoriescono dal cerchio, e un po’ mi infastidiscono,
perché io le ho sempre tracciate ben chiuse nel tondo e così
dev’essere, non capisco perché i punk pretendano di usarle ma poi si
piccano di sforarle, quasi a volersi distinguere… Con il trascorrere
degli anni devo essere diventato un anarchico conservatore: le
A-cerchiate hanno le zampe che finiscono dove passa il cerchio, non
sforano, perdìo.
Le amate A circoscritte in quella sorta di sol
dell’avvenire, o sfera di mondo dell’Utopia, mi riportano ai primi anni
Ottanta, quando le vedevo a Parigi e a Barcellona, e prima ancora,
all’adolescenza ligure, quando contribuii a fondare il gruppo
Buenaventura Durruti del Tigullio, e allora ne tracciai tante che se i
comuni costieri che vanno da Sestri Levante a Rapallo – e in qualche
nottata brava pure Portofino, tiè – con Chiavari di mezzo dove vivevo,
mi chiedessero il risarcimento per i muri rimbiancati, sarei rovinato.
E tralascio il comune di Bologna, dove, soprattutto nel 1977, ho dato
il mio apporto grafico alla fioritura sia esterna che interna
dell’università, con il dams privilegiato: anche il pianoforte del
Dipartimento di Musica era istoriato di A-cerchiate…
Da imberbe, ero più timido: sul diario, sui quaderni, pure sul banco.
Però ero più preciso: con righello e goniometro, che diamine, anche per
fare la rivoluzione ci vuole tecnica e paziente cura dei particolari, i
frettolosi e superficiali diventano spesso stalinisti e successivamente
si iscrivono a un partito di governo.
Già, quanto tempo è che non traccio una A-cerchiata? Mi pare una vita.
Un’altra vita? No, è sempre questa, la miA: anarchici non si diventa a
un certo punto e per un certo tempo, anarchici si nasce, si vive e lo
si resta fino all’ultimo respiro.
Mi fermo qui, esco un momento, scusate, in cantina dovrei avere ancora
una bomboletta rimasta a metà… Mi è appena venuto in mente che in
cantina c’è una parete libera dalle mie sette biciclette.

Matteo Guarnaccia
artista visivo e saggista

Occupandomi
di immagini e immaginario, ho sempre provato interesse per i simboli,
l’araldica e le figure allegoriche, elementi di comunicazione capaci di
sintetizzare ed evocare concetti anche elaborati. Ho riscoperto
recentemente un mio disegno del 1971, uno studio sulla A-cerchiata,
trasformata in un buffo animaletto monoculare. Le lettere dell’alfabeto
trasformate in rappresentazioni fantastiche non sono una novità,
appartengono alla grande tradizione dei capolettera dei miniaturisti
medievali (tendenza seguita persino nella cultura aniconica araba, dove
i calligrafi indulgevano in questi trucchetti). A quasi quarant’anni di
distanza, quando gli amici della Fai di Reggio Emilia mi hanno chiesto
di disegnare un manifesto per il congresso nazionale, ho ripescato la A
animata, aggiungendovi una nuova versione che cammina su un uroboro,
l’eterno ritorno e la buñueliana Via Lattea.
È interessante il fatto che l’anarchia, una filosofia/movimento
politico che ha sempre negato, deriso, combattuto i simboli, sino a
sfiorare una certa iconoclastia, abbia sentito a un certo punto della
propria storia la necessità di crearsene dei propri. Un segno che la
psiche umana, al di là della razionalità autoimposta, si muove
costantemente a suo agio nella foresta simbolica. Nel dopoguerra, in
sintonia con il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa, dei
primi vagiti della società dello spettacolo, il minimalismo del colore
nero (o rosso/nero) era diventato inadeguato per colpire l’occhio
smaliziato del popolo. L’impasse venne superata grazie alla geniale
creazione grafica dell’artista Gerald Holtom, il cosiddetto «simbolo
della pace», logo del movimento antinucleare inglese Cnd dal 1958.
Dalla metà degli anni Sessanta, la A-cerchiata ne divenne un’erede
naturale, un segno graficamente impeccabile, adatto a essere disegnato
agevolmente sui muri o sugli eskimo, che conquistò i favori dei giovani
contestatori antiautoritari. Dopo anni di soggezione rispetto alla
potenza iconografica della falce-e-martello, anche l’area libertaria
aveva finalmente un suo logo riconoscibile e di immediata lettura.
Ma la metamorfosi non era finita, nel 1976-77 il simbolo subisce una
modifica sostanziale, perde la fissità geometrica, e diventa nervoso e
dinamico, la A straborda dal cerchio spezzandolo. È in questa versione
che diventa un logo popolare, usata come elemento decorativo sugli
abiti sovversivi prodotti dalla coppia di stilisti agitprop Malcolm
McLaren e Vivienne Westwood, gli «inventori» del punk. È grazie ai loro
sforzi che i ragazzini londinesi in piena crisi antagonista diventano
improvvisamente sensibili al fascino della parola anarchia – anche se
la collegano più a Syd Vicious che a Bakunin. La nuova A-cerchiata
viene sviluppata (o degradata, a seconda dei punti di vista) su ogni
supporto tessile rivelandosi come una delle grafiche più popolari del
periodo. La fascia rossa da portare al braccio con la scritta «Chaos»,
ovviamente con la A-cerchiata, diventa un oggetto cult.
Non è più tempo di bandiere, ormai sono gli abiti che si trasformano
direttamente in strumento di propaganda e di cospirazione, in
evoluzione tessile dei volantini. Grazie a testimonial che avrebbero
fatto la gioia di Cesare Lombroso, i Sex Pistols, le creazioni della
Westwood irrompono come ordigni incendiari nei guardaroba e da lì nel
paesaggio urbano. La trovata della coppia londinese troverà imitatori
in molte blasonate case di moda negli anni a venire. Il «decorativismo
fai da te» attuato sul proprio abbigliamento (spray o pennarello)
diventerà una costante dello street style. È davvero
singolare la deriva stilistica del simbolo di un movimento che sino a
quel momento aveva offerto come massimo contributo all’abbigliamento la
cravatta lavallière nera. Anzi, l’anarchismo aveva abolito tout court
la moda quando tutti gli abitanti di Barcellona tra il 1936 e il 1939
rinunciarono di colpo alla diversificazione sartoriale optando per una
democratica tuta blu unisex da operaio (intera o salopette) e scarpe
espadrillas. Ma forse era la moda stessa che si era estinta nell’estasi
rivoluzionaria.

Clelia Pallotta
studiosa di comunicazione

Quella
A-cerchiata sui muri, negli anni della militanza politica, mi sfidava a
visioni più energiche e lievi e dalle bandiere nere, impreviste nei
cortei tra tanto rosso, ammiccava. E anche gli anarchici, soli sotto
alle bandiere, mostravano la serenità compatta di chi sta dentro a un
ideale e si alimenta di un’utopia che non ha bisogno di conferme. La A
chiusa nella perfezione del cerchio, decisa come un timbro, chiara come
un grido. Simbolo magico, figura geometrica, segno evocativo di mondi
fantastici. Marchio eloquente, potente, che trasporta valori e produce
racconti. Regala un’aura di trasgressione a chi lo adotta cercando
identità. Eppure ha una forza melanconica, contiene nostalgia per cose
lasciate o non ancora trovate: addio Lugano bella, scacciati senza
colpa gli anarchici van via, a predicar la pace ed a bandir la guerra
per un mondo senza dominatori e senza ingiustizia.

Marco Pandin
A rivista anarchica

La
provocazione punk è stata totale. Il suono assordante e distorto, la
tecnica approssimativa o mancante, il canto stonato e urlato si
traducevano nel formidabile impatto visivo delle copertine dei dischi:
colori violenti in forte contrasto oppure il più economico bianco e
nero, strappi, graffi, bruciature e tagli. Netta ed evidente la rottura
con l’immaginario e il gusto degli anni precedenti: tanto il rock era
divenuto complicato quanto il punk era destrutturato e inconsistente,
dove i testi s’erano fatti poetici ora si celebrava con un linguaggio
scurrile lo sbando in attesa della guerra atomica.
Molti fanno risalire l’inizio del cortocircuito tra punk ed anarchia al primo singolo dei Sex Pistols Anarchy in the UK,
pubblicato nel novembre 1976: «Sono un anticristo, sono un anarchico /
Non so quello che voglio ma so come ottenerlo: voglio distruggere…». Ma
la prima A-cerchiata sbattuta sulla copertina di un disco a marchiare
consapevolmente un progetto rivoluzionario, del quale la musica
costituiva solo una strategia di comunicazione, è stata quella dei
Crass. Il gruppo era formato dagli occupanti di una comune hippie
anarchica di Epping, nella campagna a nord di Londra. Nell’estate del
1977 riuscirono a recuperare un minimo di attrezzatura tecnica e un
repertorio di cinque-sei pezzi, e decisero di chiamarsi Crass (sta per volgare, indecoroso). Il gruppo registrò in un piccolo studio casalingo il proprio debutto discografico, The feeding of the 5,000, dal quale fu poi costretto a sopprimere una canzone, Asylum
(un’invettiva femminista contro l’oppressione religiosa) perché
ritenuta indecente dai gestori dello stabilimento che doveva stampare
il disco. Si decise di pubblicare comunque e per conto proprio quella
canzone censurata, diffondendola con l’aiuto di un distributore
indipendente: questo sforzo venne premiato dalla visita premurosa di
Scotland Yard alla comune di Epping, già allertata da numerose
segnalazioni e da alcune denunce per vilipendio. Un processo per
blasfemia non bastò a fermarli, e certo contribuì a far nascere attorno
ai Crass un vasto movimento internazionale, centinaia di piccole
formazioni radicali e marginali impegnate ognuna a suo modo a sabotare
l’ingranaggio del sistema. Il giro anarcopunk si ingrossava, e il
signor padrone se ne accorse ben presto: l’A-cerchiata si trovò, spesso
a sproposito, per bieca scelta pubblicitaria, a «marchiare» numerose
produzioni discografiche degli anni Ottanta.
L’anarchia quindi
commercializzata come atteggiamento «moderno» e menefreghista in
contrapposizione all’impegno e al rigore del vecchiume ideologico,
anarchia come segno grafico innovativo per chi desiderava distinguersi
dalla massa, anarchia come strategia pubblicitaria per vendere
l’invendibile. Significativa è la dichiarazione di un membro dei Flux of Pink Indians,
uno dei più importanti gruppi anarcopunk inglesi: «Ci chiamavamo
Epileptics ma abbiamo deciso di cambiare nome perché non c’era nessuna
A da poter cerchiare».
Una preoccupazione per certo condivisa da numerosi altri gruppi, non soltanto inglesi.

Marco Philopat
scrittore e agitatore culturale

Nel
1981, i primi concerti che i punk milanesi organizzarono nella casa
occupata di via Correggio 18, nel futuro capannone del Virus, erano
contro la schiavitù delle tossicodipendenze. Per l’occasione
prepararono una mascherina per fare le sprayate sui muri con una bella
A-cerchiata la cui punta spezzava in due una siringa. Era il periodo
che l’eroina falcidiava i pochi punk presenti in città, quindi la
dicitura sotto quell’icona diceva: «Distruggi le tue illusioni, non la
tua vita»… A ripensarci oggi viene quasi da ridere per l’ingenuità
moralista espressa da questo semplice slogan, ma vi assicuro che fu una
cosa importante perché l’eroina rappresentava, e forse ancora oggi
rappresenta, l’ultima frontiera della trasgressione, quella più
difficile da varcare, per dei giovani ribelli, disperati e
autolesionisti, che volevano dimostrare al resto del mondo di essere
coraggiosi protagonisti di un repentino e pericoloso cambio
generazionale. I punk allora si dividevano in due: chi si faceva e chi
no. Inutile dire che i «militanti» di entrambe le componenti si
consideravano anarchici, fosse solo perché Johnny Rotten aveva gridato Anarchy in the UK.
Perciò mettere la siringa spezzata al posto della classica arma che
usavano i londinesi Crass per ribadire il loro no alla guerra, risultò
particolarmente efficace. Quelli che non si facevano continuarono le
loro attività per diversi anni, quelli che si facevano o la smisero e
si unirono ai non tossici o cominciarono ad allontanarsi schifati della
troppa e forzata politicizzazione del punk. Questi furono i primi di
una lunga serie di critici del nulla, poi diventati parecchi sotto
altre forme, e al giorno d’oggi sono la marea di debosciati tifosi
della musica che sostengono che il punk era solo concerti e
divertimento.
Ma quelli dell’A-cerchiata non scherzavano affatto, e
anche se pogavano e si divertivano lo stesso, erano sempre in prima
fila per fronteggiare polizia, fascisti e benpensanti in tutto l’arco
della giornata, settimana, mese, anno o intera vita che fosse… Non si
può sfuggire a tanta radicalità a corrente continua. Punk e A-cerchiata
un connubio minacciosamente perfetto…