Genova – Una giornata qualunque – sulla morte di Farid

 
Una sera qualunque, si fa buio, la pioggia scroscia… Un’ottima
occasione per svoltare la giornata. Così, come spesso capita – al di
fuori di ogni giudizio morale – una borsa sparisce. Una corsa, qualcuno
che "chiama", i carabinieri…
E’ così che giovedì sera, il sei di novembre, viene arrestato Farid
Aoufi. Un ragazzo che abitava a Genova ma venuto dall’Algeria, che – in
un tratto – si vede ammanettato, accusato di furto, trascinato in
caserma. E, in quella caserma, Farid non ha potuto dire nulla, fare
nulla, spiegarsi o difendersi: in quella caserma, sotto quella caserma,
Farid è morto. E’ morto, è morto ammazzato, "precipitato" dal secondo piano di via Fossatello, in pieno centro storico di Genova.
I gendarmi, loro, il tempo di parlare ce l’hanno avuto, quello di
giustificarsi anche: alla stampa hanno dichiarato che si è trattato di
una tentata fuga.
Una tentata fuga? Dalla loro finestra? Posta a dieci metri d’altezza dal suolo stradale?
Non sappiamo come sia andata, cosa abbiano detto o fatto a Farid,
sappiamo quello che è stato il risultato: un ragazzo ammanettato – come
alcuni presenti al tragico evento ci hanno raccontato – che cade da una
finestra.
Un altro cadavere che esce dalle caserme d’Italia, un atro "tragico
incidente" su cui verrà aperta un’inchiesta. Certo, non c’è da
preoccuparsi…
Perché tutto verrà risolto, tutto finirà in "una bolla di sapone".
Perché, ancora una volta, "all’assoluzione" degli sbirri ci penseranno
i giornalisti: sempre riverenti e fedeli alle forze dell’ordine,
discrediteranno lo scomparso dipingendolo come qualcuno di cui aver
paura, di cui non vale quasi la pena dispiacersi, un delinquente, un
pazzo, un drogato. Non una tragedia insomma, ma semplicemente una
casualità, il gesto di un folle.
Per l’ennesima volta, a lavare il sangue di un uomo dalle mani degli
assassini e mantenerne sempre lustra la divisa, ci penseranno loro: i
"paladini della libertà di stampa".
Eppure noi vogliamo ricordarci, non possiamo dimenticare i tanti
racconti di tanti ragazzi – specie stranieri. Perché tutti a Genova
sanno che i carabinieri di Fossatello "brillano" per i metodi ben poco
diplomatici utilizzati specialmente sulla pelle dei poveri, dei
"senza-documenti", degli uomini e delle donne che hanno la "colpa" di
provenire da altrove. Tutti sanno che, in quella caserma, umiliazioni,
maltrattamenti e torture sono all’ordine del giorno.
Ciò che è accaduto a Farid è allora solo la punta di un ice-berg.
Qualcuno si chiederà perché bisogna sempre arrivare alla tragedia per
prendere coraggio e alzare la testa "in un giorno qualsiasi". Qualcuno
sosterrà che non è giusto attender che "ci scappi il morto" per
finalmente mettersi a gridare, tristi e arrabbiati, che tutto questo è
troppo.
E’ vero, venerdì scorso ci siamo arrabbiati… ma era troppo tardi, è sempre troppo tardi.
Ma per quanto in ritardo, almeno una volta, ad essere arrabbiati
eravamo in tanti, ognuno con la sua intima e personale tensione. E ci
siamo incontrati, complici per un momento.
Appresa la notizia, alle tre di venerdì pomeriggio eravamo solo una
cinquantina davanti la caserma. Pochi, ci sembrava. Ma presto, quella
che poteva sembrare una veglia funebre si è trasformata. E’ bastata
qualche parola detta al megafono, un rapido e determinato blocco
stradale per tornare a presidiare via Fossatello in tanti: uomini e
donne, di tutte le età e di tutti i Paesi, uniti dalla rabbia e forse,
per solo un attimo, da qualcosa di più.
Fra megafonate, scritte sull’asfalto e un’iscrizione in memoria di
Farid – affissa sul portone della caserma – il megafono, e con esso le
parole e l’indignazione, sono passate di mano in mano: c’era chi
gridava "giustizia" e chi pregava per il morto, chi denunciava le
continue sopraffazioni e chi – passando in strada – soltanto ci
lanciava un sorriso solidale. Purtroppo, bisogna ammetterlo, c’era
anche qualche avvoltoio politico, pronto come sempre a precipitarsi sul
cadavere di turno.
Ma il presidio è continuato, ed eravamo divenuti tanti (duecento?), fra
gli attoniti carabinieri. Fin quando nel tardo pomeriggio è giunta la
madre di Farid dalla Francia, venuta da lontano per riconoscere il
corpo del figlio e per chiedere spiegazioni sull’accaduto ai
carabinieri.
Ancora una volta, gli sbirri non si sono smentiti: porta chiusa, nemmeno alla madre è concessa udienza.
Era troppo. I manifestanti si sono di nuovo riversati in strada, sulla
via principale ed in orario di punta, la "parola d’ordine" era solo
una: nessuno si muove dalla strada fin quando la madre del ragazzo
morto (o ucciso) verrà ascoltata.
Per un’ora il traffico è rimasto bloccato, un’ora di tensione certo ma
in cui la determinazione è stata contagiosa… e alla fine, per una
volta, sono stati i carabinieri a dover cedere. Finalmente la mamma di
Farid è potuta entrare.
Ma i manifestanti, giustamente, non potevano accontentarsi. Dalla
strada il blocco si muove, ma per "invadere" il centro storico fino ad
arrivare in una piazza centrale dove… guarda, guarda: c’era Di Pietro
a comiziare!
La contestazione ha inizio, anche se per pochi minuti, senza che le
"guardie" sappiano cosa fare o interferiscano. Altre parole e slogan
contro le forze dell’ordine raccolgono altri passanti. Il corteo
avanza, spontaneo, fino… alla fine… a disperdersi nel nulla.
Questa la giornata, una giornata qualunque e nello stesso tempo un po’ speciale.
Qualunque perché purtroppo la morte, l’abuso, la violenza dei poteri
sono diventati norma. Speciale perché, per una volta, la dignità, il
coraggio e la rabbia sono stati capaci di abbattere le frontiere che –
chi pretende di comandarci – fa di tutto per frapporre tra gli
oppressi. Per una volta, abbiamo vinto sulla paura e sulla diffidenza.
Per una volta abbiamo vinto sulla guerra civile.