Critica radicale: La leggenda della valle che non c’è (Da Avalanche)

Pubblichiamo il nostro contributo uscito sul numero 4 di Avalanche:

La leggenda della valle che non c’è

Non è semplice sintetizzare in un articolo la questione valsusina ed il ruolo che gli anarchici – alcuni – si sono “ritagliati” al suo interno, la faccenda è molto ampia ed articolata, ci limiteremo quindi a dare la nostra chiave di lettura su certe dinamiche che abbiamo potuto osservare in alcuni anni di permanenza nella famigerata “valle che resiste”. In primis necessita mettere in luce quello che è il modus operandi che i detentori della linea politica di movimento hanno impostato/imposto e che portano avanti, con buona pace degli anarchici/notav.

Partiamo dalla conclusione: in Val di Susa sussistono reali possibilità di rivolta, in essere o in potenza, che possano mirare all’abbattimento delle logiche di dominio quali le conosciamo e con le quali come anarchici confliggiamo quotidianamente? La risposta è no. In Val di Susa lo scenario è quello classico della lotta di cortile che si sostanzia su un territorio certo ampio ma che risente appunto di tutti i limiti dei movimenti «non nel mio giardino». Come abbiamo più volte avuto la possibilità di notare, il movimento valsusino nella sua grande maggioranza non è interessato alle lotte che si svolgono lontano dei suoi confini e se ne trattano lo fanno solo o per strumentalizzazione politica o per una questione di empatia superficiale e tutta “religiosa” che non è quindi interessata a rilevare similitudini e differenze dei conflitti in atto e di trarne un ragionamento generale di critica ed attacco al potere, che infatti non viene rifiutato né messo in discussione ma del quale si chiede sostanzialmente una gestione più “equa”.

Sul piano strettamente locale la cosa si fa ben evidente nei momenti di consultazioni elettorali, sia nazionali, ma in maggior misura – ovviamente – in quelle comunali, quando l’oligarchia di movimento, la stessa che si consulta e stabilisce le linee d’azione in riunioni ristrette prima delle farse decisionali dei cosiddetti “coordinamenti dei comitati” (1), momenti di riunione spacciati per assemblee decisionali orizzontali ma che hanno più il gusto di una comunicazione dei pochi ai molti sulle eventuali azioni da intraprendere, si affanna nella corsa a ricoprire incarichi istituzionali. Inizia così il grande valzer delle oscene alleanze, concupiscenze ed intrallazzi al fine dell’ottenimento del voto, con lo scopo di accrescere la propria popolarità personale e per cercare di conquistare il governo di alcuni comuni interessati dal passaggio dell’Alta Velocità o delle infrastrutture ad essa collegate, per avere la propria briciola di potere ed andarla a far pesare nei colloqui con i supposti nemici dell’organizzazione statale.

Si fa un grande ricorso alla delega, nella gestione ordinaria del movimento (appunto nei coordinamenti dei comitati, quando questi ultimi, ormai ridotti alla stregua di chimera valligiana, vengono rappresentati in tali riunioni da qualche individuo) che in quella straordinaria, come nel caso delle elezioni appunto, quando la possibilità di essere ai vertici amministrativi comunali è ambita, incoraggiata e sostenuta. Durante tali eventi, come anche in altri di maggiore partecipazione di individui che «vengono da fuori» – figure vissute come armi a doppio taglio, ambivalentemente attirate ma anche temute, forse per la libertà d’azione che potrebbero rivendicare e mettere in atto – viene ribadito con orgoglio un concetto fastidioso, quello secondo cui le cose in valle si fanno «a moda nostra», cioè con le nostre modalità, imposte dall’oligarchia e accettate con acquiescenza dalla massa, senza alcuna tolleranza o nel migliore dei casi considerazione di eventuali iniziative di gruppi o individui che escano dal recinto della supervisione valligiana. L’«a moda nostra» rappresenta a tutti gli effetti la linea di demarcazione tra ciò che è possibile o non possibile fare, il quando, il dove, il come e il chi, ed è la dimostrazione di un impianto verticistico ed autoritario che nella retorica movimentizia si dice di rifiutare e combattere ma che nella pratica trova perfetta attuazione.

Val di Susa, la retorica teatralizzante della lotta

Se c’è una cosa che in Val di Susa è stata creata con successo e che ad oggi continua a funzionare piuttosto bene è una retorica di movimento che si palesa in maniera chiara nel momento in cui decide di raccontarsi e di “vendere” il proprio prodotto fuori dai confini piemontesi; la parola “vendere” non è scelta a caso, infatti quello che si può notare passando del tempo in valle e partecipando agli appuntamenti di movimento, è come ogni singolo fatto venga trattato in maniera teatrale e volto a creare immaginario: dal semplice tempo passato davanti ad una rete che diventa una «grande giornata di lotta», ad un tentativo di alcuni di forzare un blocco di polizia in maniera risoluta che diventa un vile attacco violento da parte di quest’ultima nei confronti dei poveri manifestanti lì solo per rivendicare un proprio diritto; ci ritroviamo davanti ad una torsione dei fatti tutta volta a creare un immaginario resistenziale che possa avere appeal da un lato con le anime belle della “società civile”, quindi mai di attacco e sempre di resistenza ad una violenza subita, ma che strizzi anche l’occhio ai rivoltosi sparsi per l’Italia e li invogli a spostarsi in valle dimostrando come l’eroica resistenza valligiana non parli il linguaggio della mera testimonianza o del politicantismo, ma della lotta non mediata alla sopraffazione. Il tutto accettato ed in buona parte rilanciato anche dagli anarchici più addentro alle dinamiche di gestione del movimento.

Non si tratta però solo di una rappresentazione fiorita di quello che accade, ma piuttosto di una creazione di immaginario strumentale a cooptare manovalanza esterna alla valle utilizzando temi e parole d’ordine cari ad esempio all’anarchismo, mostrando una realtà di valle orizzontale, acefala e genericamente “libertaria” che nei fatti non corrisponde alla realtà ma che è utile a convogliare forze sul territorio, manovalanza “specializzata” che può risultare utile nei momenti di conflitto con la forza pubblica e che però come già detto va tenuta bene al guinzaglio, sia per non turbare troppo le popolazioni, sia per non rischiare di sbilanciare gli equilibri interni del movimento; in questo la logica della «grande famiglia» della quale parleremo più avanti si è dimostrata uno strumento perfetto. L’ipocrisia di movimento, l’autorappresentazione spettacolare, l’accettazione delle dinamiche comunicative del potere (mistificazione, ribaltamento di significato e linguaggio, manipolazione dei fatti, ecc…) sono sostanziali del modo di porsi del movimento No Tav, metodologia non condivisa forse dalla totalità dei “movimentisti” che comunque la accettano o come necessità, o per non rischiare di mettere in discussione le posizioni acquisite all’interno del movimento delle “mille anime” – e questo crediamo sia il caso di certi anarchici che fino ad oggi hanno fatto finta di non vedere o hanno minimizzato, o hanno giustificato adducendo ridicole motivazioni.

La creazione della grande famiglia

Il movimento No Tav è figlio anche della società mediaticamente sovraesposta, e come tale ha dovuto crearsi un’immagine sfaccettata quel tanto che basta da risultare appetibile sia ai fruitori dello spettacolo mediatico, sia a coloro che cercano un luogo dove la propria modalità di lotta sia accettata e condivisa. La retorica della grande famiglia in questo è stata lo strumento principe e forse ben studiato per riuscire a marginalizzare quegli elementi che potevano essere poco digeribili agli spettatori del teatro valsusino. Se la presenza di militanti di varia estrazione è stata accettata come necessità strumentale – e per rendersene conto basta parlarne con un qualsiasi “semplice” valligiano – è altresì necessario che le identità specifiche più scomode siano sottaciute o passate in secondo piano, in un’ottica edulcorata volta a presentare il movimento al di fuori degli scenari classici del conflitto. Il marchio è quello della grande famiglia No Tav, siamo tutti No Tav, ecc… In questo scenario la vicenda dei quattro anarchici (diventati poi sette) arrestati per un attacco al cantiere – che i portavoce di movimento, utilizzando le tecniche di cui sopra chiamano «passeggiata notturna» – è esplicativa (2). Il movimento ha sempre parlato dei «suoi ragazzi», dei quattro prigionieri No Tav, omettendo sempre di citarne l’appartenenza “ideologica”, così da rendere più digeribile al pubblico la loro posizione, difficilmente spendibile se identificati come anarchici notoriamente poco “appetibili” ai fruitori dei media di regime; e tutto con buona pace degli altri anarchisti che evidentemente hanno ritenuto utile non agitare troppo quella che un tempo era chiamata «la bandiera dell’ideale», per paura – forse – di perdere l’appoggio mediatico discendente dalle sacre insegne della bandiera trenocrociata.

La «grande famiglia» ha anche un’altra funzione, non è altro infatti che la traslazione del concetto di democrazia utilizzato dalle autorità classiche ma troppo compromesso per essere rivenduto all’interno di un movimento che si palleggia fra l’antipolitica di stampo grillino (3) o da indignados e il sentimento di rivolta di altre comparse sul palco.

La «grande famiglia» è il dogma davanti al quale tutti coloro che hanno deciso di farne parte alzano le mani; così come per la “società civile” l’accusa di antidemocraticità diventa una macchia da lavare dimostrando tutta la propria fedeltà ai dettami democratici, la stessa identica cosa succede all’interno del movimento valsusino dove però la parola democrazia è sostituita con medesimo significato dalle parole – spesso intercambiabili – «grande famiglia» o «movimento popolare», in nome delle quali ogni conflitto generato da questioni sostanziali è ridotto al silenzio. In questo il movimento valsusino è perfettamente reazionario, poiché ha deciso di utilizzare metodi e strutture di creazione del consenso e di gestione della realtà tradizionalmente plasmati ed utilizzati dal potere per annichilire il dissenso e la possibilità che al suo interno si creino reali momenti di conflitto.

In tutto ciò c’è quindi chi ha deciso di non mettere in discussione certe dinamiche e sostanzialmente di avocare all’oggetto collettivo la propria soggettività individuale. L’impianto generale del potere è replicato, ed è bastato solo lavorare un minimo sul linguaggio.

L’investitura popolare diventa così l’obiettivo che sostituisce nella forma ma non nella sostanza il concetto borghese di elezione democratica – cui comunque com’è stato già detto è ricorsa appena possibile – e poco cambia fra il «siamo democraticamente eletti» dei politici e «le popolazioni valligiane sono con noi» dei gestori di movimento; il consenso nudo e crudo è ciò che viene ricercato, nulla di più, ed in ciò il linguaggio grossolanamente popolar/sentimentale di alcuni epigoni del movimento (anche anarchici) la dice lunga sulla verosimiglianza di queste affermazioni.

La gestione del linguaggio e la manipolazione dei fatti sono poi evidenti nel modo in cui sono affrontate le questioni legate alla delazione (4). Il movimento No Tav ha in pratica deciso di non prendere posizione bollando come «lotta fra parrocchie» la vicenda, spostando l’attenzione ed il fulcro della faccenda non sulla questione di sostanza, la delazione e tutto ciò che ne consegue, ma sui contendenti specifici, svuotando di significato un atto gravissimo come la confidenza che viene ridotta a scaramuccia fra bande. Dopo circa un mese dai sabotaggi di Firenze e Bologna (5), l’appello del movimento, gridato forte ed in perfetto stile autoritario, volto ad arrestare anche ogni minimo spunto di pensiero critico individuale, è stato quello di far sì che lo spettacolo movimentizio continuasse, che si continuasse uniti nella lotta, a tutti i costi, e di farla finita una volta per tutte con quelle che sono state archiviate alla bell’e meglio come “polemiche”. In questo gli anarchici “famigli” hanno deciso in buona parte di non turbare gli equilibri all’interno del ventre caldo del movimento popolare, o ignorando la questione, o bollandola anch’essi – utilizzando un linguaggio al limite del pretesco – come “scaramuccia”, magari figlia del mezzo utilizzato (internet) e degli animi esasperati, oppure spostando l’attenzione sulla – a detta loro – vera questione, ovvero i passi indietro del movimento rispetto alla pratica del sabotaggio. Atteggiamenti questi del tutto in linea con la tendenza di parte dell’anarchismo italiano odierno che tende sempre più a minimizzare questioni di sostanza come la delazione, la presenza negli spazi di infami o infiltrati in nome di un «volemose bbene» figlio della convenienza politica, in una logica utilitaristica che dà sinceramente il voltastomaco.

La storia le storie e le favole

Come ogni movimento nazional popolare anche quello No Tav ha bisogno dei suoi santi e dei suoi martiri, e se ad oggi è pronto a giocarsi mediaticamente sui giornali ed in tv feriti ed arrestati, cosa di per sé già deprecabile, non si fa scrupolo nemmeno di agitare a mo’ di santini le foto di Edoardo Massari detto Baleno – o “balengo” da alcuni che ai tempi lo schernivano e che oggi ne fanno apologia – e Maria Soledad Rosas detta Sole, i due anarchici “suicidati” in regime di privazione dalla libertà alla fine degli anni 90, accusati di essere gli esecutori di alcuni sabotaggi avvenuti in valle a danno dell’Alta Velocità… già, nel 1998 qualcuno in valle già sabotava e questi sabotaggi erano deprecati da tanti; fini “intellettuali” oggi fiancheggiatori del movimento come ad esempio il triste filosofo Prof. Vattimo che ai tempi ebbe parole irripetibilmente offensive per la memoria dei due compagni, ora siede tranquillamente al desco assieme a chi magari a quei tempi si era ritrovato solo a difendere i due “martiri” suo malgrado e lo fa con tutti gli onori da tributare ai vip sostenitori di movimento, siano essi magistrati, pennivendoli, famosi scrittori filo-sionisti o quant’altro. Ma, potrebbe dire qualcuno, i tempi sono cambiati e gli errori di tiro si possono correggere e così è sembrato fare qualche tempo fa durante un’intervista il leader di movimento Alberto Perino, che ribadendo la solidarietà del No Tav ai sette arrestati, en passant ammetteva l’errore di valutazione nell’aver mal giudicato i poveri Sole e Baleno qualche annetto prima, quindi tutto risolto… non proprio, ma tant’è, sembra che il mantra «quel che è stato è stato, guardiamo avanti» abbia fatto presa sui più, anche su chi storicamente si è sempre vantato di «non dimenticare».

Alcuni partigiani pseudocritici di movimento – fa tanto libera coscienza agitare il logoro straccio del pensiero autonomo, purché ciò non si sostanzi con una critica troppo radicale all’impianto che ci accoglie! – pur dicendo di condividere tutta una serie di appunti al movimento e affermando di individuarne i limiti oggettivi, nel ritenere che comunque l’importante è “starci dentro” qualsiasi cosa voglia dire – e qualsiasi rospo tocchi ingoiare –, ribadiscono che comunque quello valsusino è l’unico movimento popolare che abbia sdoganato la pratica di sabotaggio come mezzo di lotta. Questo è vero e falso allo stesso tempo.

Se è vero che una famosa assemblea ha ratificato il sabotaggio come pratica ammessa – pur con tutta una serie di steccati – e che questo è un evento più unico che raro in Italia, è altresì palese che ciò sia avvenuto turandosi il naso e per puro calcolo politico: c’era bisogno di rilanciare una lotta che aveva perso appeal fra i militanti antiautoritari italiani ed esteri a causa dello sbilanciamento marcato del movimento verso la piaga elettorale, le presenze “da fuori” in valle cominciavano a stentare (se si eccettuano alcuni bacini d’utenza storici, corresponsabili in certi casi della macchina del consenso valsusina), c’era bisogno di rilanciare il brand in una fetta di “mercato” troppo importante per il movimento che senza la «carne da cannone» da mandare allo sbaraglio per i boschi si troverebbe a dover fare i conti con la quasi totale assenza dei valligiani sulle barricate o comunque con una carenza di “competenze” in determinati frangenti “caldi”… cosa meglio del sabotaggio!? La pratica è patrimonio comune di tante realtà, rimanda ad un’epica di lotta gloriosa, può essere giocata mediaticamente. Il gioco è fatto, anche se il meccanismo ha rischiato di rompersi subito, poiché pochi giorni dopo la famosa assemblea un sabotaggio è avvenuto ed alcuni, sempre i soliti di notav.infam invero, agitarono da subito lo spettro della provocazione, salvo poi ricordarsi che solo alcuni giorni prima i probiviri di movimento avevano legittimato la pratica del sabot e quindi lasciato cadere la questione.

Il sabotaggio quindi diventa mezzo di cooptazione politica, non pratica strategica in una battaglia di liberazione inserita nella guerra contro il dominio, tanto che solo pochi mesi dopo, e siamo ai giorni nostri, gli stessi agitatori dello zoccolo si trovano a trattare alcuni sabotaggi come pratica deprecabile inutile e dannosa per la causa stessa del movimento, al quale farebbe perdere appeal a livello nazionale in un momento in cui le simpatie per il simbolo del trenocrociato sarebbero in ascesa, il tutto in barba alla massima che gli stessi No Tav propagandarono per mezza Italia «portare la valle in città», ovvero agire nei territori contro l’alta velocità nei modi che si ritenevano opportuni… ma oggi no, oggi non si fa!… La convenienza politica prima di tutto!

Anarchici notav, anarchici e No Tav

Se le dinamiche del movimento No Tav non aggiungono nulla alle prospettive di rivolta, è pur vero che comunque si sia voluta affrontare la questione da parte dei rivoltosi non si tratta nient’altro che di una lotta contro una condizione specifica del dominio che però non è interessata ad affrontare le interconnessioni tentacolari dello stesso, ma solo a risolvere la propria questione di quartiere, una classica lotta per la difesa del proprio giardino insomma, ma che nel caos degli accadimenti avrebbe potuto avere qualche spiraglio interessante. Purtroppo la tattica tutta politica dell’entrismo movimentista senza se e senza ma che è stata attuata da certi anarchici non ha fatto altro che legittimare un movimento specifico a rappresentare una sorta di avanguardia rivoluzionaria. Niente di più lontano dalla realtà dei fatti, ovviamente, ma nella creazione di questo falso immaginario alcuni “rivoluzionari” hanno determinate responsabilità.

Già l’accettazione delle dinamiche di gruppo allargato e del vincolo alle decisioni della maggioranza, del dogma del popolarismo in salsa «grande famiglia» non hanno fatto altro che portare in marcia PER ANNI alcuni anarchici a fianco di preti, sindaci, magistrati, ex militari e chi più ne ha più ne metta, e questo in maniera acritica senza che si sia tentato realmente di sviluppare un discorso di critica radicale a certi meccanismi di movimento, ai quali anzi è stato deciso di sottomettersi in un’ottica di pragmatismo tutto politico volto a non rompere un fronte popolare – ghiotta preda per gli affamati di legittimazione e per gli animali da microfono – nel quale evidentemente si è intravisto un bacino di utenza utile ai propri scopi. Invece di portare attraverso le proprie idee e pratiche un approccio di critica sistemico, complessivo, certi anarchici hanno concentrato la critica all’esistente su un unico aspetto, l’opposizione ad una manifestazione localmente presente del potere, trascurando, mettendo da parte, sfumando, diluendo tutti gli altri elementi che hanno la stessa importanza all’interno della rivolta, elementi che costruiscono lo stesso logos di rifiuto ed attacco al dominio.

Per anni la ragion di movimento, tanto somigliante alla ragion di Stato, è stata accettata da buona parte degli anarchici più presenti in valle che si sono felicemente prestati al gioco della politica fatto di compromessi, occhi chiusi, ricerca di consenso. Certo ogni tanto qualche mal di pancia c’è stato, ma il tutto sempre relegato ad una dialettica di movimento che ha sempre sostanzialmente lasciato l’amaro in bocca. Quando alcuni compagni sono stati attaccati dalla grande famiglia per aver scelto di rifiutare la difesa legale nel processo ai 53 per i fatti di Giugno/Luglio 2011 (6), come si sono posti gli anarchici aficionados di valle? A nostra memoria è stato detto poco o nulla, come sono stati trascurati altri accadimenti più o meno grandi sempre bollati come questioni poco importanti o comunque subordinate all’unità movimentista. Il risultato di questa metodologia tutta politica di certi anarchisti a cosa ha portato nel concreto? Se è vero che tanti anarchici hanno scontato mesi di galera e affrontato processi per fatti avvenuti in valle, nel movimento valligiano qual è stato l’apporto della pratica e della teoria anarchiche? Poco o niente, e questo perché si è preferita la ragion di movimento alla chiarezza dei contenuti, perché è stato senzientemente deciso di subordinare la pratica anarchica a convenienze politiche che magari nella testa di certuni avranno avuto anche un senso – che si stenta però a capire – ma che nella sostanza hanno portato solo fallimenti. L’anarchia in valle è stata sacrificata sull’altare di un popolarismo che dell’anarchismo poco ha sempre voluto sapere e che ad oggi non dimostra di aver cambiato minimamente idea. In alcuni casi parlando con certi anarchici si ha decisamente l’impressione che il clima da famiglia allargata (tale però solo se si accettano i dettami di movimento in tutto e per tutto) abbia lenito le sofferenze che anni di militanza si portano dietro e che, grati per le carezze impreviste, siano pronti a darsi anima e corpo al movimento, in una sorta di amor religioso che farebbe invidia anche al più pio dei sacerdoti in odor di santità.

In tutto ciò chi si è posto e si pone contro l’Alta Velocità ed il mondo che ne consegue rifiutando di dirsi No Tav poiché non ne condivide scopi, metodi e mezzi è ignorato, vituperato, dileggiato, diffamato, spiato, chiacchierato (si scusi l’involontaria citazione stil-proudhoniana). Proporre di muoversi autonomamente sulla base delle affinità è ritenuta una inutile perdita di tempo, il rifiuto di partecipare al teatro di movimento è visto come una sostanziale inazione, mentre loro, al grido di «l’importante è esserci» accettano di essere i burattini di coloro che gestiscono sapientemente le trame di movimento. Poi ogni tanto qualcosa accade e qualcuno che fino a quel momento aveva fatto finta di non vedere, magari maneggiando nell’ombra a fianco di interlocutori oggi bollati come irricevibili, apre gli occhietti per un attimo e si sente in dovere di porre le proprie educate rimostranze alle mille anime di movimento, come nel caso del documento «Alle compagne e ai compagni di strada (e di sentiero)» dove gli estensori si stupiscono di una serie di eventi scaturiti però da dinamiche in essere da anni, che loro medesimi quantomeno con il silenzio hanno contribuito a sedimentare e che in quel determinato momento gli si sono rivolte contro (il riferimento è al campeggio itinerante del 2014 ed al coinvolgimento dei sindaci nelle iniziative per i quattro – poi 7 – arrestati). Verrebbe da citare Oscar Wilde, che in una sua massima sosteneva che non si dovrebbe mai discutere con gli idioti, perché ti trascinano al loro livello e ti battono con l’esperienza e questo vale anche con i politicanti e per chi sceglie, come alcuni hanno scelto, di giocare il loro gioco.

Dagli eventi di questa estate qualche scoria è rimasta, e la questione nata dallo scambio di battute fra i redattori di Finimondo e quelli di notav.infam, leggasi Askatasuna e Comitato di Lotta Popolare (CLP) di Bussoleno, ha dato l’impulso ad alcuni per togliersi dei sassolini dalle scarpe ma, si badi bene, sassolini che in certi casi sanno di convenienza politica (ancora) in una lotta egemonica («straccetti di benzina, stracci politici e delazione») sul movimento No Tav che di fatto non entra nella questione dell’essenza di tale realtà, come se averci messo «idee e cuore» assolva dall’aver comunque sostanzialmente accettato la «ragion di movimento», con tutto quello che ne è conseguito.

Lasciamo perdere poi i blandi comunicati usciti da Roma (NED – P.S.M.) o da Torino (il sito Macerie), l’uno quasi pretesco nei toni, l’altro che continua ad eludere/colludere, seppur in maniera più sagacemente articolata, le questioni inerenti la natura del famigerato movimento No Tav.

Sappiamo di non aver affrontato con l’accuratezza che richiederebbero tutti i temi trattati, come sappiamo di aver lasciato fuori dalla porta altre questioni che meriterebbero una trattazione altrettanto approfondita, ma quello che ci preme è aprire una breccia sul reale scenario che si dipana in Val di Susa, sia a pro di chi comunque volesse toccare con mano la questione passando da queste parti, sia per chi fosse interessato ad inserire l’esperienza valligiana in una riflessione più generale sul dominio e sui mezzi che quest’ultimo riesce a far permeare all’interno delle lotte per renderle innocue o più facilmente recuperabili.

M. e V.

(dalla Val Susa)

(1) Il Coordinamento dei Comitati è l’assise generale dei comitati locali No Tav, lo spazio in cui dovrebbero essere discusse le proposte dei vari gruppi, le scadenze di lotta, ecc. Simbolo dell’orizzontalità decisionale del movimento, in realtà il dibattito interno è pressoché assente e la dinamica dei leader è perfettamente in essere, così come quella della delega quasi in bianco. Questo Coordinamento discute di poco o nulla, limitandosi a comunicare e ratificare pubblicamente le decisioni prese in separata sede da una piccola élite (di valle e non) che stabilisce la linea che il movimento deve seguire.

(2) Il 9 dicembre 2013 vengono arrestati quattro anarchici (Chiara, Mattia, Niccolò e Claudio), con l’accusa di aver partecipato ad un assalto notturno contro il cantiere di Chiomonte nella notte fra il 13 e il 14 maggio di quell’anno, conclusosi con l’incendio di alcuni macchinari. Con la medesima accusa verranno arrestati l’11 luglio 2014 altri tre anarchici (Lucio, Francesco, Graziano). Il processo a carico dei primi quattro imputati, che nel corso delle udienze hanno rivendicato la propria responsabilità nei fatti, si è concluso lo scorso 17 dicembre con una condanna a 3 anni e 6 mesi di carcere. È invece caduta l’accusa di «terrorismo» che la Procura aveva cercato di addossare loro.

(3) Beppe Grillo è un noto comico che da anni dà voce a molte proteste contro le politiche del governo, oscillando fra cittadinismo di sinistra e populismo di destra. Nell’ottobre del 2009 ha fondato il Movimento 5 Stelle che, dopo aver conquistato alcune amministrazioni locali, dal febbraio 2013 è presente anche in Parlamento.

(4) Il 28 dicembre 2014, il sito notav.info — considerato «portavoce» del movimento No Tav— ha pubblicato una nota redazionale in cui si accusavano i redattori del sito finimondo.org di essere gli autori dei sabotaggi avvenuti alcuni giorni prima lungo la linea ferroviaria di Firenze e Bologna, nonché di altri reati del passato. Il giorno successivo, il 29, lo stesso articolo è stato diffuso anche da un altro sito legato all’Autonomia torinese, infoaut.org. Accusa ripresa quel giorno stesso anche dal quotidiano La Repubblica. Riacquisita una tardiva consapevolezza, quel giorno stesso gli autonomi piemontesi hanno modificato leggermente il loro testo per cancellare la plateale delazione. Ma il 30 dicembre è stato lo stesso Finimondo a rendere pubblico l’accaduto (qui si può leggere l’articolo tradotto http://www.non-fides.fr/?Les-gentils-de-Noel) accusando esplicitamente notav.infam di aver indicato i propri redattori alla polizia. Ne sono seguite polemiche ancora non placate.

(5) Il 21 dicembre 2014 a Firenze, ed il 23 a Bologna, sono avvenuti due sabotaggi incendiari contro la linea dell’Alta Velocità.

(6) Il 27 giugno 2011, dopo una giornata di scontri, oltre duemila agenti dell’ordine sgomberarono il presidio No Tav, ribattezzato «Libera Repubblica della Maddalena», aperto a Chiomonte il 22 maggio precedente sull’area in cui doveva essere realizzato un tunnel geognostico. Il 3 luglio successivo si è svolta una manifestazione di protesta con 60.000 persone. Numerosi manifestanti hanno dato l’assalto alla zona presidiata dalle forze dell’ordine, nel tentativo di rioccuparla. Oltre 200 manifestanti sono rimasti feriti negli scontri e 5 di loro sono stati arrestati. Per queste giornate di scontri, il 27 gennaio 2015 il Tribunale di Torino ha condannato 47 manifestanti a pene che vanno da pochi mesi a oltre 4 anni di detenzione.

(7) Dal 17 al 27 luglio 2014 si è tenuta in Val Susa una marcia No Tav che ha toccato sette paesi, con un campeggio itinerante, mobile. Durante le soste sono state organizzate varie iniziative, fra cui incontri con le amministrazioni locali.