Tratto da informa-azione:
AGLI INSOFFERENTI…
a proposito del 20 luglio 2001
“Non esiste, in effetti, una più spudorata menzogna di quella che
consiste nel sostenere, anche e soprattutto in presenza
dell’irreparabile, che la rivolta non serve a niente. La rivolta porta
la sua giustificazione in se stessa, indipendentemente dalle
possibilità che ha di modificare o no lo stato di cose che la
determina. E’ la scintilla nel vento, ma la scintilla che cerca la
polveriera”
André Breton
Molte persone, totalmente assuefatte alla vita deprivata e
miserevole a loro imposta fin dalla nascita dagli obblighi e dai doveri
di questa società, lo hanno dipinto come un giorno di tragedia, in cui
una città è stata saccheggiata e devastata; altri hanno detto che non
era vero, che era stata la polizia a fare una mattanza, picchiando i
bravi e lasciando fare ai cattivi. Altri ancora hanno cercato di tenere
viva la memoria, appellandosi alla giustizia e legandola solo agli
esiti legali dei processi contro polizia e manifestanti. Ma altri
ancora, che non scrivono sui giornali e non vanno in tv, hanno vissuto
un momento altrettanto importante della tragedia della morte di Carlo,
un momento di libertà concreta che ha aperto lo scrigno segreto di quel
patrimonio di sensazioni, stimoli e volontà di ribellione che
normalmente il dominio totale dei nostri giorni riesce a segregare nel
regno astratto e solitario del puro desiderio.
Adesso che i corvi si allontanano dal luogo del delitto, è tempo che i
generosi si riapproprino del senso di quel giorno e lo rimettano al
centro di un immaginario impegnato a cercare la via per uscire
dall’atmosfera sempre più opprimente di questi lunghi anni, dal baratro
verso cui questo triste mondo sta inesorabilmente scivolando.
Per chi allora era troppo giovane per poter aver visto qualcosa di
meritevole delle grandi lotte del passato, quel giorno è stato un lampo
nel buio, la folgorante rivelazione che tutto quanto letto e
fantasticato potesse rivivere da un momento all’altro. Dopo il buio
degli anni Ottanta e Novanta, chi avrebbe scommesso qualcosa su un
momento di rivolta così intenso?
Attaccare spontaneamente e in molti la gabbia che ci soffoca tutti i
giorni e riappropriarsi delle strade in cui spendiamo la nostra unica
vita per farne un momento di rivolta; disertare gli appuntamenti voluti
dal nemico, ignorare i discorsi fumosi dei militanti e degli
intellettuali “sinistri” e andare dritti al cuore della situazione,
riconoscendo il nemico non negli otto pagliacci autoreclusisi nella
zona rossa, ma nell’intero sistema di potere che si manifesta nella
vita quotidiana delle nostre città; queste sono le dimostrazioni di
quanto quel giorno significhi per chi è incazzato e vuole vivere
diversamente, senza sacrificarsi ed aspettare la promessa dell’aldilà.
Se questo sistema ci vuole soli e atomizzati, a correre frenetici lungo
i binari della sottomissione per andare a svolgere i nostri doveri e a
consumare i “piaceri” imposti dall’onnipresenza delle merci, il bello
di quel 20 luglio di sette anni fa sta nell’ aver saputo riconoscere
lucidamente il nemico per andare a attaccarlo e, sia pure per breve
tempo, a metterlo in scacco. In tanti ci si è ritrovati a combattere
senza spirito di sacrificio o per servire una causa decisa da altri, ma
solo mossi dalla voglia di deridere e distruggere allo stesso tempo
quel potere che ci logora nel non senso del tempo speso sui luoghi di
lavoro, nelle banche, nelle code del traffico, nella solitudine di case
e quartieri costruiti contro ogni possibilità di incontro e
socializzazione o nell’alienazione feroce dei luoghi del consumo
obbligato.
In quel giorno troppo breve, per molti si è aperta una breccia nel
destino apparentemente ineluttabile della propria vita. Il sentire
sulla propria pelle un esaltante momento di libertà costruito in uno
spazio e in un tempo improvvisamente e finalmente condivisi con altri,
ha dimostrato che se non un altro mondo, almeno un altromodo di
spendere la nostra vita è possibile, qui e ora. Chi di noi attraversa
oggi certi luoghi di Genova, abbruttiti dalla noia e dalla routine del
Capitale, senza percepirli inesorabilmente trasfigurati dalla bellezza
di quella giornata, attraverso una memoria che sconfina nella poesia?
Chi di noi non si è convinto in quel giorno che è solo nell’ora della
rivolta che non ci sente più soli nella città? In tanti, è evidente, se
anche il potere, i magistrati e i giornalisti hanno dovuto ammettere
che quel giorno non furono soltanto cinquecento anarchici a rivoltarsi
e a mettere in sacco l’organizzazione del potere, ma migliaia di
persone, compresi molti passanti.
Ma ciononostante subito dopo è tornato il buio di prima. Sono rimasti
tanti bravi compagni che si battono, isolati e coraggiosi, contro le
schifezze peggiori che si accumulano e si inseguono giorno dopo giorno,
e tanti altri che, pur avendo chiara la situazione del mondo in cui
vivono, spendono il loro spirito critico o la loro creatività in una
libertà isolata e vigilata concessa a chi assicura di non disturbare,
di farsi i cazzi propri.
Ma che ne è di quella rabbia gioiosa di quel giorno? Non è servito a
nulla riaccendere la fiaccola della rivolta in maniera così eclatante e
efficace? Forse ci vorrebbe un’altra occasione speciale per rivivere
una giornata come quella, ma si vive una volta sola e non si può
aspettare. La coscienza, acquisita attraverso l’esperienza concreta di
quelle ore, di come ci si può ribellare in massa e cominciare a
rovesciare l’ordine esistente in situazioni costruite collettivamente,
non può essere disperso così; chi ha negli occhi e nel cuore quel senso
di liberazione non può rassegnarsi al ricordo malinconico, ed è ora che
trovi altri modi, altre situazioni per riattivare e non disperdere quel
patrimonio di sensazioni. Per chi ritiene che non ci sia libertà se non
fuori dalle logiche di questo mondo di merci; per chi non si accontenta
delle briciole di “benessere” (sempre meno) elargitegli dal dominio
dell’economia e dei doveri; per gli incazzati che allora erano troppo
giovani per aver potuto partecipare a quel momento di festa e rabbia;
per chi ha troppa ansia di vivere per rassegnarsi alla sopravvivenza
imposta; per tutti questi, e speriamo molti altri, quel giorno rimane
un giorno di festa, non una data da ricordare o commemorare, ma
un’eredità da raccogliere e da spendere.
Se questo mondo si avvia verso l’autodistruzione ambientale e se queste
città in cui viviamo sono già morte, popolate da zombies a cui è
rimasto l’unico istinto di recarsi nei centri commerciali come nei film
di Romero, nondimeno nella nostra breve vita c’è forse qualcosa d’altro
che meriti di essere fatto e a cui si possa così facilmente rinunciare
che non sia provare a essere più liberi possibili, a non dargliela
vinta, a provare a autocostruire e autogestire incontri, luoghi e
situazioni di libertà, capaci di restituirci un po’ di quel terreno che
tutti i giorni ci viene tolto da sotto i piedi? Che sia per i propri
figli per chi li ha, o “solo” per se stessi, non c’è altra soluzione
che combattere, provare a creare una realtà più all’altezza del nostro
desiderio di vivere. In questo senso e non per farne un feticcio, ha un
senso parlare ancora del 20 luglio 2001. Al di fuori di ogni
commemorazione e lamentela, queste parole vogliono essere la
testimonianza di una sensibilità che non si è persa, e
l’auspicio/invito che essa, mossa dall’orgoglio, abbia la capacità,
l’intelligenza e la creatività di riemergere in mille rivoli di
insubordinazione e rivolta, gioiosa e rabbiosa allo stesso tempo. E se
non sarà la rivoluzione il risultato di questi tentativi, non importa;
quel che conta è esserci, qui ed ora, ed essere all’altezza dei propri
desideri di libertà.
da apaches@canaglie.net