Da Finimondo:
«Fate entrare l’infinito»
No, non c’è un usciere all’ingresso delle im-possibilità umane. Spetta a ciascuno di noi aprire quella porta. Scassinarla, al limite, per trovare una via di fuga da questo grande mondo istituzionale in decomposizione, da questo piccolo mondo rivoluzionario in putrefazione. Perchè le illusioni spacciate dal grande mondo sono scadute, come la mitopoiesi sciorinata dal piccolo mondo. In questo labirinto di riflessi non c’è libera uscita: c’è un pantano in cui si sprofonda, ci sono specchi su cui ci si arrampica. Si entra da esseri umani, e si rimane chiusi dentro da cittadini o da militanti. Annaspanti, senza aria, chi a elemosinare diritti ridicoli, chi ad amministrare rivendicazioni patetiche.
Alla fine dello scorso dicembre, il dado è stato tratto. Una pubblica delazione all’interno del “Movimento”. Con rare ammirevoli eccezioni, un silenzio assordante l’ha accompagnata nei primi giorni. Solo un’invasione di campo da oltre confine – certe fierezze, come certe vergogne, non hanno passaporto – ha smosso le acque. Anelito di vita o aria che gonfia un cadavere? Solo il tempo potrà dirlo. Nessun dubbio però: un Movimento che non si muove davanti ad un fatto simile è una scena, una messa-in-scena, con tanto di ruoli e pause e copioni da rispettare.
Facciamola finita con le ipocrisie. «Compagni! Non ci sono compagni. Io non vi amo. Potete vivere e divertirvi, per me fa lo stesso», diceva un poeta dandy e nichilista quasi un secolo fa. Lo ripetiamo noi oggi. È un vizio di forma, un difetto di linguaggio, che dà adito a tanti equivoci: «com-pagno» è chi mangia lo stesso nostro pane. Ebbene, noi non ne mangiamo di quel pane. A costo di morire di fame.
Non è questione di comunicati e contro-comunicati, di essere o di esserci, di agire o di fare, di bandiera nera o di bandiera rossa. È questione di etica, nonché di intelligenza, minima: non si discute con chi indica alla polizia (per meschina intenzionalità o fessa dabbenaggine, fa lo stesso). E non c’è più nulla da dire nemmeno a chi, con un conta-applausi al posto del cuore e la dignità di uno zerbino, tollera in qualche modo la delazione. Come fa chiunque protegge i delatori con l’omertà, limitandosi a indirette tiratine d’orecchie. Come fa chiunque continua ad accompagnarli per convenienza. E come fa(rà) anche chi terrà loro un broncio temporaneo, avendo dimenticato ogni ostilità permanente (ne abbiamo visti troppi di lupi selvaggi diventare cagnolini da riporto non appena sentono il battito della ciotola). Siamo troppo vecchi per credere nella promessa della menzogna. Siamo troppo giovani per sopportare il fetore della carogna.
Sputiamo sulle tombe di tutti loro, delatori e compagni di delatori. Perché, anche se non se ne sono accorti, sono più morti dei morti. Non esseri umani, fatti di carne e di sangue, ma burattini di paglia da agitare su un palcoscenico.
Tutte queste miserie le lasciamo dietro di noi. Inutile che battano alle nostre spalle, non ci volteremo. Abbiamo una porta da aprire, o al limite da scassinare. Al nostro fianco ci sarà sempre posto per individui animati dal medesimo desiderio – unire il sogno all’azione. Tutti gli altri, se ne stiano alla larga. Perché manteniamo intatta una buona memoria, e non accetteremo mai l’oblio di scambio. Chi tenterà di far scomparire l’avvenuta pubblica delazione con l’incanto della rimozione – solo una scomoda polemica, voltiamo pagina – dovrà rassegnarsi. Talvolta la storia prende vie impreviste per sgusciare fuori dai capitoli chiusi. Anche i ricordi sono riverberi. E come ebbe a dire qualcuno – mai frase fu più appropriata date tutte le circostanze – «siamo soli come le montagne, abbiamo complici ovunque».
Andiamo avanti, sì, cerchiamo di far entrare l’infinito. In quest’epoca di massacri, di vite civili nel sangue e di coscienze rivoluzionarie nel fango, è questa la nobile follia.