da finomondo:
Un cadavere si aggira per il mondo. Il cadavere dell’ideologia. Laddove la teoria è l’insieme organico delle idee possedute da un individuo, per ideologia si può intendere l’insieme di idee che possiedono un individuo. E le idee che costituiscono una ideologia sono come le macchine; ogni anno ne viene immesso sul mercato un nuovo modello che sostituisce quello precedente, sebbene siano assolutamente identici nella loro funzione alienante.
Del resto, concetti come “novità”, “progresso”, “cambiamento”, “modernità” sono sempre stati presenti nel linguaggio pubblicitario del capitalismo, poiché anche con essi legittima la propria perpetuazione. Ciò che sta accadendo oggi in Italia è significativo in proposito. Chi non si batte in nome del Nuovo? Chi non rivendica una nuova identità, una nuova verginità capace di mantenerlo in corsa? La frantumazione del vecchio regime e la successiva nascita di formazioni politiche “trasversali” — un fenomeno di trasformismo per voltagabbana salutato come rinnovamento da intellettuali, giornalisti e consumatori di informazioni — che se non altro ha il merito di mostrare come il programma di qualsiasi partito sia interscambiabile (in quanto tutti si equivalgono), è resa possibile grazie alla massiccia diffusione dell’ideologia del Nuovo, il nuovismo, inseguita da tutti coloro che vogliono continuare il Vecchio, ma a differenza dei semplici nostalgici da una posizione di forza e con un alibi di ferro.
La politica è omogenea, da destra a sinistra è solo questione di sfumature, come dimostrano i diversi uomini politici che sfarfallano indifferentemente da un partito all’altro. E poiché il movimento antagonista è spesso purtroppo una parodia del parlamento, ciò che accade dentro le istituzioni viene riprodotto all’interno del movimento.
Così le idee contenute nell’ideologia rivoluzionaria — il cui fascino è venuto meno — hanno subìto un processo di revisione che le ha portate ad essere percepite come superate, o come odiose regole cui ieri si doveva sottostare e che oggi bisogna trasgredire. Ciò vuol dire che tutta una serie di comportamenti, un tempo diffusi, viene ora addebitata alla peregrina sottomissione a schemi ormai obsoleti, che vanno rimessi in discussione ed abbandonati. In poche parole, ciò che si faceva ieri, guai a farlo oggi. E viceversa. Questa situazione ci fa venire in mente quelle persone che lanciano di continuo sonori rutti ed intraprendenti scoregge in pubblico, per dimostrare a tutti di aver infine superato le antiche inibizioni, senza rendersi conto di come la loro attuale sguaiataggine sia miserabile quanto le loro vecchie buone maniere. Allo stesso modo, oggi assistiamo all’irritante spettacolo costituito dai rumori intestinali di quanti hanno fatto della morte delle ideologie, la propria nuova ideologia. Costoro, trovatisi privi dell’ideologia che da sempre li sosteneva e guidava, si sono ritrovati infatti anche privi di idee, non avendone di proprie, e si compiacciono di mirare il vuoto del proprio cervello, scambiandolo grottescamente per profondità intellettuale.
Il risultato di questo tragicomico fenomeno non poteva essere che la costituzione di una nuova ideologia, l’antideologismo, caratterizzata da un forte pragmatismo, il realismo «oggettivo» dei bottegai, che ha come unica certezza quella di poter approfittare di tutto, di trarre guadagno da tutto, di manomettere tutto. L’inevitabile conseguenza di una simile «liberazione dagli schemi» è stata la tremenda diarrea di opportunismo che ha portato, ad esempio, alla collaborazione con forze un tempo considerate nemiche, all’utilizzo del copyright (o anche all’uso dell’anti-copyright ma con una formulazione che di fatto lo nega), alla presenza di pubblicità e sponsor vari, alla riabilitazione di ruderi che sembravano destinati al macero e che il fato ha finora risparmiato (salutiamo la dipartita di tristi personaggi come Felix Guattari e Gianni Sassi, rammaricandoci solo che sia avvenuta malgrado noi), alla diffusione della peste artistica e di molte altre brutture.
Il lato patetico di tutto ciò, è che questi cacanuovismi, pur di non ammettere la debolezza dei motivi individuali che un tempo li muovevano, si ostinano a decretare determinati modi di agire, determinati comportamenti, frutto in quanto tali della fideistica adesione ad una ideologia. Vittime ravvedute dell’ideologia rivoluzionaria, i cacanuovismi ritengono insomma che tutti coloro che si richiamano ancora alla rivoluzione, oggi come in passato siano anch’essi posseduti dall’ideologia, nessuno escluso.
Proprio loro, che ieri erano rivoluzionari perché obbedienti ai sacri testi di Marx, Lenin, Bakunin o Debord, oggi ammiccano compassionevoli quando sentono pronunciare la parola «rivoluzione». Orgogliosi della propria autocritica, non si sono accorti di aver soltanto cambiato ideologia, non la realtà. Ecco perché non entra loro in testa che si desidera la rivoluzione semplicemente perché si ama la vita e si odia la sopravvivenza, il lavoro, il denaro, le merci — non perché si sia affascinati dal ruolo del rivoluzionario. Nondimeno, nei loro contorcimenti autodifensivi finiscono per considerare “ideologici” tutti coloro che continuano, poniamo, a rifiutare di intrattenere rapporti con le istituzioni, a non accettare contributi statali, a disprezzare gli intellettuali, a considerare nemici tutti i lacché di questo mondo. In nome di un Nuovo che è solo pentimento e rimozione del loro Vecchio, giudicano ciò che per altri non è mai stata che una scelta di vita come “sopravvivenza del Vecchio”.
Passata la sbornia rivoluzionaria, è però rimasta l’emicrania del giorno dopo. Che fare? Il realismo insegna che bisogna battersi per nuovi obiettivi e utilizzare nuovi strumenti. A stabilire poi quali, ci pensa l’opportunismo sempre pronto a cavalcare tutte le mode, magari sotto diverse denominazioni e attraverso le più disparate categorie — la più recente delle quali è l’accattivante nomadismo psichico.
L’aspetto più squallido dei cacanuovismi è la loro apologia dell’efficientismo, la loro ricerca di ciò che funziona. Rivoluzionari quando ritenevano che la rivoluzione fosse «dietro l’angolo», ora si inginocchiano davanti al modello trionfante: la democrazia. Quelli che ieri ci ammorbavano con le loro giaculatorie in favore del «potere operaio», oggi sbavano per la democrazia radicale, la democrazia soggettiva, la democrazia extra-parlamentare, la democrazia non rappresentativa e la democrazia diretta. Termini nuovi — non tanto per la verità — dietro cui si cerca di nascondere una posizione antica: l’adesione a questo mondo.
Noi siamo ancora sostenitori di una rivoluzione sociale che porti alla distruzione dello Stato e del capitale. Ecco perché per gli intellettuali, i democratici, i giovani imbecilli moderni che sono al passo con i tempi e i vecchi imbecilli ex-rivoluzionari che vorrebbero esserlo per sentirsi vivi, non abbiamo nulla di nuovo da dire. Queste persone, i cacanuovismi e tutti gli altri rimasugli prodotti dalla decomposizione del cadavere delle ideologie, ci danno il voltastomaco. Lo scriviamo qui, subito, in modo che nel caso si imbattano in questo stampato, ne cessino la lettura, lo gettino nella «pattumiera della storia» assieme ai loro sogni rivoluzionari di gioventù — non più adatti per chi ha acquisito l’adulta pace dei sensi — e si tengano alla larga da noi.
Abbandonato il terreno bruciante della rivolta e della sovversione, non c’è che la cultura in grado di accogliere e consolare tutte le disillusioni di intere generazioni.
È la svolta “culturalista”, quella che mira alla diffusione di una cultura ritenuta radicale che ha come scopo la formazione di una nuova mentalità, di un nuovo modo di pensare, di sentire, di essere, capace un giorno (?!) di tramutarsi in azione. Disincanto, realismo scettico, interesse per tutto ciò che è espressione culturale sono le vantate caratteristiche di questo progetto che rappresenta, anche in questo caso, il Nuovo contro il Vecchio dell’utopia rivoluzionaria. I vecchi testi rivoluzionari vanno rinchiusi nei musei e nelle biblioteche, a meno di rispolverarli per approfittare di qualche operazione commerciale come un film, ed è al Nuovo che bisogna prestare attenzione; l’apparente originalità della confezione sopperisce alla scarsità di contenuto.
Naturalmente i promotori di una simile rivoluzione culturale, sostenuta proprio in quanto surrogato della rivoluzione materiale, si trovano di fronte alcuni problemi da risolvere. Anzitutto, devono prediligere temi che non rimandino esplicitamente alla rivolta, considerata non più attuabile, ma che tuttavia la richiamino, se pur da lontano. Poi devono instaurare discreti rapporti con intellettuali ed artisti, eterni sguatteri dell’ordine sociale, cui viene affidato il compito di interpretare e di esprimere il «mondo nuovo». Infine devono adeguare il proprio operato alla “qualità” dei tempi, che è delle più squallide. E per concludere, devono decantare le giovani generazioni da cui trarre rinnovati spunti e “nuova” linfa vitale. Sovente il risultato non manca di essere esilarante.
Increduli circa la legittimità di una rivoluzione, in cui vedono solo una ideologia, si battono per la difesa di sempre più numerosi diritti. Insofferenti alle certezze e ai dubbi, in cui vedono solo del massimalismo, si limitano ad esprimere opinioni. Spaventati da una ostilità dichiarata, in cui vedono solo del fanatismo, decantano le gioie del “pluralismo”. Quando non sono orfani della rivoluzione col bisogno di pubblicare libri e riviste da usare come fazzoletti per asciugarsi le lacrime, sono servi del potere in cerca di un posto al sole.
E se un tempo l’ideologia rivoluzionaria considerava ogni scontro di piazza e ogni sbirro abbattuto un passo in avanti verso la rivoluzione, oggi l’ideologia culturalista ritiene che più libri e dischi si pubblicano, più si avvicina il momento di una indistinta quanto improbabile liberazione. Ecco perché oggi siamo subissati di prodotti culturali scialbi, misurati, grigi, scontati, banali, concilianti. È il trionfo della mediocrità.
Il progetto culturalista ignora o finge di ignorare che la controcultura è morta, come la controinformazione del resto. Entrambi questi due concetti si fondavano su un presupposto non più valido: quello di un potere rigido, che controlla avidamente la diffusione delle idee sottoponendole prima alla sua censura. La controcultura era quindi la cultura che non trovava spazio, quella che veniva strozzata dal cappio del silenzio, quella che veniva proibita; la sua diffusione era di per sé un atto sovversivo. Allo stesso modo la controinformazione rappresentava la verità contro le veline di una stampa menzognera. «La verità è rivoluzionaria» — ricordate?
Oggi non esiste più una cultura trasgressiva, così come non esiste più una informazione insabbiata. Basta andare in libreria o accendere la televisione o il computer, per avere tutta la cultura che si vuole, tutte le informazioni possibili e immaginabili. Il dominio è diventato elastico, non reprime, fa partecipare.
Cultura e informazioni costituiscono il flusso, che tutto tollera perché tutto fagocita. Oggi siamo informati su tutto, ma non sappiamo nulla.
Quale cultura può vantarsi di essere antagonista, sovversiva, rivoluzionaria? Se trent’anni fa le opere di Sade facevano finire in galera i suoi editori, oggi entrano applaudite nella prestigiosa collana delle “Pleiadi”. Se uno scrittore come Bataille fino a poco tempo fa in Italia era conosciuto solo da una ristretta cerchia di persone, oggi i suoi libri sono contesi dagli editori di mercato. Quanto ai testi cosiddetti “politici”, vengono ormai considerati un retaggio folcloristico, appannaggio di storici, di topi da biblioteca. Allo stesso modo, la controinformazione ha perso ogni credibilità, se si pensa che fogli di partito pubblicano notizie clamorose, piene di verità scottanti per il potere.
I recenti accadimenti italiani hanno ben dimostrato come la rivelazione dei misfatti della classe dirigente non spinga affatto la gente a ribellarsi, come supponeva il concetto di controinformazione, ma al massimo a votare per “nuove” aggregazioni politiche, quali il Movimento 5 stelle o la Lista Tsipras. La verità non è rivoluzionaria, così come non lo è in sé la cultura.
Ma ancora la cultura dei “contro-”si adegua ai tempi per continuare a solleticare alcuni palati dalla bocca buona, limitandosi a mutare il soggetto a cui abbinarsi secondo la moda del momento. Così capita oggi in alcuni ambienti di sentir decantare le più moderne meraviglie della tecnica, come la contro-rete telematica, la nuova trovata di alcuni ambiziosi che, ripulitisi della scorza troppo trasgressiva che non consentiva loro di estendere il proprio campo di intervento, si sono affinati ed ora li possiamo sentire dai microfoni compiacenti di alcune radio democratiche mentre confessano compiaciuti le proprie aspirazioni tecno-politiche, li possiamo vedere percorrere con garbo e savoir faire le passerelle televisive mentre rincorrono con lo sguardo la telecamera che deve inquadrarli. Il successo è garantito, faranno carriera.
D’altronde non è da tutti sentirsi in grado di sostenere tutto e il contrario di tutto, caricandosi sulle fragili spalle il gravoso fardello di rappresentare tutte le idee, le pratiche di lotta, le istanze artistiche più interessanti simpatiche stravaganti degli ultimi 30 anni.
L’operazione non è troppo complessa come parrebbe a prima vista: basta conoscerle approssimativamente, amalgamarle tutte insieme unendovi alcune scoperte degli amministratori del potere — quelle che è possibile utilizzare per i propri scopi, come è il caso delle nuove tecnologie —, quindi curarne la confezione ed infine rilanciarle presentandosi come gli unici legittimi eredi dell’intero patrimonio.
È il nuovo corso parassitario di alcuni opportunisti a corto di idee originali e di contenuti propri, desiderosi di metter su bottega salvaguardandosi l’immagine virtuale e il posteriore reale. Ad ognuno il suo.
Per parte nostra, quando ci imbatteremo in qualche “nuovo” cialtrone emergente che, in nome e per conto del Realismo, ci solleciterà ad abiurare e a non desiderare più la rivoluzione — in questo ultimo periodo stiamo assistendo ad una uggiosa sovrabbondanza di simili squallidi figuri — sapremo quale trattamento riservargli. Nessun accomodamento è possibile con chi, allettato dalle suadenti e convenienti proposte del dominio, promuove e partecipa attivamente ai meccanismi di integrazione che eliminano progressivamente ogni anelito di libertà, ogni furore di rivolta.
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