La soluzione finale al problema etico

Pubblichiamo volentieri questa interessante e condivisibile riflessione Da Finimondo:

Cominciamo con quello che si potrebbe definire il problema conclusivo alla costruzione di una situazione, l’amara vittoria della teoria situazionista tramutata in pensiero situazionale. Mezzo secolo fa una situazione era definita come un «momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti». Lo scopo di questo momento esistenziale era quello di spezzare la grigia obbedienza imposta dall’esistente, ovvero farla finita con tutte le separazioni per raggiungere la totalità dell’essere. Non era l’apologia del frammento licenzioso concesso dal tempo presente, ma l’esatto contrario: l’apologia della pienezza liberatoria strappata nel tempo storico.

Quella teoria della situazione era infatti anche una critica della separazione compiuta, laddove «la realtà considerata parzialmente si afferma nella sua propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte». È questo lo spettacolo – «strumento di unificazione», «il luogo dell’inganno dello sguardo e il centro della falsa coscienza», «una visione del mondo che si è oggettivata». L’alienazione prodotta dallo spettacolo «cancella i limiti dell’io e del mondo con l’annientamento dell’io che si trova assediato dalla presenza-assenza del mondo, cancella parimenti i limiti del vero e del falso con la rimozione di ogni verità vissuta sotto la presenza reale della falsità che si trova confermata dall’organizzazione dell’apparenza».
Riprendendo le tesi di Joseph Gabel sulla falsa coscienza, i situazionisti sostenevano il parallelismo fra ideologia e schizofrenia. Da parte sua, Gabel sosteneva che la falsa coscienza non era presente solo nell’ideologia, come denunciato da Marx, ma conosceva anche una forma individuale che egli chiamava «alterazione schizofrenica». Falsa coscienza che però aveva a suo dire anche forme legittime. Infatti era costretto a riconoscere che Marx criticava in teoria ciò che però giustificava nella prassi, giacché «la falsa coscienza è un corollario dell’azione politica concreta… quando vuole essere efficace, l’azione politica è condannata a utilizzare tecniche di persuasione collettiva che reificano e dedialettizzano il pensiero» (forse è per questo che i situazionisti per un periodo incitarono alla «lotta per il controllo delle nuove tecniche di condizionamento» delle masse, in competizione con la manipolazione poliziesca).
Ma se la vecchia teoria situazionista sosteneva una «unità di comportamento nel tempo», il supergiovane pensiero situazionale fa l’esatto opposto: pretende una separazione di comportamento nel tempo. Poiché la falsa coscienza diventa legittima non appena si mette al servizio dell’azione politica, tanto vale allora che si presenti come una coscienza felice. L’io non deve più essere considerato cancellato, la verità vissuta non deve più essere considerata rimossa, non devono più essere giacché in fondo non sono mai esistiti. Per usare la stessa metafora di Gabel, sì, il malato è guarito dalla febbre rompendo il termometro.
Se la teoria situazionista tuonava «niente indulgenze inutili», dicendo «chiaramente che tutti i situazionisti conserveranno l’eredità delle inimicizie dei loro gruppi costituiti, e che non c’è ritorno possibile per quelli che una volta siamo stati costretti a disprezzare», era perché il momento della vita che essi volevano organizzare doveva fornire finalmente l’occasione di realizzare i loro desideri, di esprimere ciò che erano, nei loro amori quanto nei loro odi. Era un momento autonomo, pensato e organizzato come altro rispetto a quello scandito dall’orologio del potere. Il pensiero situazionale invece invoca che tutte le indulgenze sono utili, dicendo chiaramente che bisogna rifiutare ogni eredità delle inimicizie, che il ritorno per chi una volta si è stati costretti a disprezzare è sempre possibile, quasi necessario. Questo perché l’organizzazione dei suoi momenti collettivi non sarebbe altrimenti attuabile, non essendo affatto autonoma. Per il pensiero situazionale l’autonomia è sinonimo di povertà e di isolamento. La vita sociale è già piena di situazioni, non occorre affaticarsi a crearne di proprie, basta immergersi in quelle esistenti, condividerle per influenzarle. In un certo senso il pensiero situazionale assomiglia all’intelligenza artificiale: ci si connette in rete, si salta un po’ qui e un po’ là, e quando c’è qualcosa che non va, clic, si resetta tutto e si ricomincia daccapo. La condivisione della situazione No Dal Molin, ad esempio, ha richiesto il resettaggio di Genova 2001, avvenuto il quale gli avvoltoi su cui sputare o gli infiltrati da denunciare sono tornati ad essere compagni con cui lottare. Per non parlare della condivisione della situazione No Tav in Valsusa, la quale alla lunga ha richiesto un resettaggio continuo di… praticamente tutto?
Se per la teoria situazionista l’essere umano è degradato prima dall’essere all’avere, e poi dall’avere all’apparire, ora si assiste ad un ulteriore slittamento che per il pensiero situazionale costituisce un vero e proprio trionfo: si è passati dall’apparire all’esserci. Non si è, non si ha e non si appare nemmeno: basta esserci (questa «ambigua scappatoia», come la chiamava un Anders sospettoso dei concetti forgiati da filosofi nazisti), basta la mera presenza nelle situazioni. Chi c’è è in – non importa chi sia, cosa dica o cosa faccia, né come né perché – chi non c’è è out. Presenzialismo che può fare a meno sia del passato che del futuro, essendo certificato dalla sola immediatezza del presente. Dall’ardua ricerca dell’oro del tempo si passa al facile respiro dell’aria del tempo.
Ora, il resettaggio del passato, la cancellazione della memoria, non è operazione facile in ambito sovversivo. La falsa coscienza necessaria all’azione politica si scontra infatti con il problema etico, ad esempio con l’idea secondo cui non si può sovvertire e servire allo stesso tempo; o anche con la diffusa convinzione che la memoria sia rivoluzionaria. Come fare a liquidare definitivamente questo problema? Le smentite non bastano, i sofismi nemmeno, e ad arrampicarsi sugli specchi tutti i giorni ci si stanca. Non si può andare avanti così, a chiamare errore episodico il metodo continuato, a fingere stupore e indignazione davanti all’evidenza più palese, ad evitare ogni critica pubblica e circostanziata sommergendola con pettegolezzi privati e «richieste di fiducia». Le situazioni incalzano, esigono una flessibilità (altro che conflittualità!) permanente, per cui bisogna farla finita una volta per tutte: niente intransigenze sconvenienti. Occorre decidersi a prendere di petto la questione, risolvendola alla radice.
La maniera c’è ed è davvero definitiva. La memoria non va più cancellata o «rivista e corretta» nei punti più imbarazzanti, secondo la bisogna. Ne va decretata la nocività in sé, la sua pesante costrizione. Basta con la tirannia dei ricordi, largo alla libertà dell’oblio. Non sono gli smemorati interessati a dover stare sulla difensiva, giustificandosi. Sono loro i rivoluzionari pronti a salire su qualsiasi barricata e su qualsiasi carro, mentre chi possiede ancora un briciolo di memoria è da considerare un reazionario.
La transizione da un pensiero critico ad una razionalità operativa è oggi in corso ad una velocità vorticosa, producendo ogni tanto effetti imbarazzanti. Qualche apprendista stregone rimane talvolta colto di sorpresa ed impotente di fronte a quanto egli stesso ha contribuito a provocare. Davanti a casi estremi si ritrova fra i piedi la questione etica, la consequenzialità, la memoria storica, ovvero tutto ciò che ha da tempo dimenticato e insegnato a dimenticare (soprattutto davanti a certi figuri che sono stati fatti rientrare dalla finestra dopo essere stati buttati fuori a calci dalla porta). Nell’Arca di Noé l’attivista, è stato chiamato all’appello tutto lo zoo: cani, porci, colombe, pesci, sciacalli, bradipi, struzzi, pecore, pavoni, volpi, asini, avvoltoi, oche, squali, pappagalli… va bene ogni specie d’animale, perché in fondo ci vuole unità e umiltà… no, attenzione, attenzione, ratti e serpenti no, quelli no!
Troppo tardi. Dopo aver fatto spallucce davanti alla calunnia o alla dissociazione, che da atteggiamenti miserabili sono diventati al massimo scelte opinabili. Dopo aver giustificato ogni opportunismo, che da vizio politico è diventato virtù strategica. Dopo aver accettato la vicinanza di parlamentari, preti, giornalisti… che da nemici sono diventati possibili interlocutori, se non utili alleati. Dopo aver puntualmente suggerito a tutti di evitare discussioni e di evitare rotture, liquidando ogni problema ed ogni asperità che si presentavano come se si trattasse di questioni personali, vecchie ruggini private nocive alla lotta, passioni tristi come il risentimento che nulla hanno a che spartire con interessi allegri come l’adescamento. Dopo tutte queste lezioni, martellate con costanza nell’ultimo decennio, perché mai chi è cresciuto al ritornello del «a compagno trovato non si guarda in bocca», del «tutto fa brodo», del «scurdammoci ‘o passato», addirittura del «gli infiltrati non vanno toccati», dovrebbe ora porsi eccessivi scrupoli davanti a qualsiasi cosa o persona? Farà come ha sempre fatto, come gli è stato suggerito e insegnato in tante altre occasioni: alzerà le spalle, si metterà a ridere, sbufferà e via facendo. Non è forse su questo che si fonda quel che resta del movimento, sulla reciproca amnesia organizzata? Quando si cerca la convenienza al punto da accettare ogni convivenza, poi è inevitabile finire nella connivenza. La preoccupazione etica non può sorgere solo nei giorni pari, meglio se in anni bisestili, durante le pause pranzo, fra un rutto e un altro, quando il vento tira da ovest, se il cielo è coperto, ammesso che la temperatura lo permetta, ben visibile con gli occhiali buoni se non si dimenticano a casa.
Se ad essere rivoluzionaria è l’elastica capacità di adeguarsi, di mostrarsi all’altezza della situazione, certi apprendisti stregoni hanno ben poco da preoccuparsi o lamentarsi per le reazioni di chi ha imparato che, se non si riesce a scalfire la Ragione di Stato, tanto vale consolarsi annientando ogni Idea di Movimento. L’introiezione della necessità pratica dell’oblio di scambio è risultata essere una premessa invero appropriata per abbozzare la soluzione finale al problema etico. L’oblio di scambio: io dimentico chi sei e cosa hai fatto se tu dimentichi chi sono e cosa ho fatto io, così potremo fare affari assieme. Qui, in questa reciproca rimozione utilitarista, è stato costruito il vero Luogo Comune disponibile ad accogliere tutti. Oblio che ormai esige d’essere applicato quotidianamente.
La consequenzialità è una noia, sinonimo di banalità. La memoria è contro-rivoluzionaria, sinonimo di immobilismo. Non rompete con vecchi ricordi impolverati. Chi se ne frega? Per essere in movimento bisogna rimanere leggeri e cavalcare l’onda dell’attimo presente, non farsi rallentare scendendo in profondità nella storia del passato. L’amnesia di Movimento è come l’amnistia di Stato, colpo di spugna che pareggia i conti rimettendo in circolazione tutti quanti sgravati dalle proprie responsabilità. E deve valere per chiunque. Se è meglio ignorare gli atti di chi è dedito al collaborazionismo politico, allora è meglio ignorare anche le carte di chi è dedito al collaborazionismo giudiziario. Se per stimare qualcuno bisogna dimenticare il suo contribuito alla desistenza di molti, allora per frequentare qualcun altro si può anche dimenticare il suo contribuito alla repressione di pochi. Se non bisogna accanirsi contro tutti i magistrati, allora non bisogna accanirsi nemmeno contro tutti i loro strumenti. Se i buchi di memoria sono perfetti per rinsaldare i rapporti politici, allora perché vanno male per quelli umani? Se l’affinità di idee va sostituita con l’affettività di sentimenti, allora cosa c’è di male nel rimanere sempre tutti in famiglia?
Ragionamenti che non fanno una grinza e che sono l’ennesimo effetto di quella soppressione forzata delle differenze, di quella rimozione del passato e di quella negazione dell’etica che caratterizzano bene quest’epoca e che, dopo essere tracimate dal Palazzo, hanno invaso anche il così ottusamente simmetrico Movimento. Eccolo qui il punto d’incontro nella «alterazione schizofrenica» fra dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, carnefici e vittime, calunniatori e calunniati, denunciatori e denunciati, non più separati da un’opposizione storica in quanto nemici irriducibili ma accomunati dalla condivisione della situazione in quanto esseri indifferenziati. Come abbiamo già detto da tempo, facendo infuriare qualche apprendista stregone ambizioso di potenza, la stura è stata data. Ogni profondità e prospettiva stanno venendo cancellate a favore dell’eterno presente del calcolo politico, in grado di annullare qualsiasi responsabilità e distinzione fra vero e falso giustificando così ogni bassezza. Progetto elaborato direttamente nei laboratori del potere, frutto di quella razionalità tecnologica che trasforma la vita stessa in un insieme di dati a portata di un clic, ma accettato senza la minima resistenza anche da chi vorrebbe sovvertirlo.
[5/1/15]