Il castello dei fantasmi

Da Finimondo:

S-a-b-o-t-a-g-g-i-o

 1. (sost. m.) Azione clandestina di danneggiamento, distruzione, in genere violenta, mirante a rendere inutilizzabile un materiale, una installazione civile o militare.
2. (sost. m.) Manovra, atto avente come scopo la disorganizzazione, il fallimento di una impresa, di un progetto. 
3. (sost. m.) Atto materiale tendente ad impedire il normale funzionamento di un servizio.
Talvolta siamo indotti a credere di abitare in un mondo di fantasmi. Senza corpo né forma, essi infestano i nostri giorni e le nostre notti, cercando di determinare e di controllare la nostra intera esistenza. Si chiamano Economia, Nazione, Politica, Bene Pubblico, Stato, Ordine. Nessuno sa esattamente in cosa consistano, perché esistano e, soprattutto, i pareri sono discordi. Fantasmi quindi, inafferrabili, estremamente resistenti alla critica benevola o costruttiva, come si dice, perché dotati di una incredibile capacità di assorbimento delle mezze opinioni, degli all’incirca e delle critiche superficiali.
Il potere scava di continuo l’abisso fra questi concetti ideologici e la materialità tuttavia innegabile dello sfruttamento, dell’oppressione, dell’ingiustizia, dell’assenza di libertà. Si parla di Economia come se fosse qualcosa di separato dalle ore di lavoro che si svolgono soffocando, come se non riguardasse gli abiti che tutti indossiamo, fabbricati da milioni di schiavi in un paese lontano. Si parla di Ordine senza rendersi conto che questo concetto, applicato alla realtà, riguarda per esempio le migliaia di immigrati morti alle frontiere. Si parla di Reclusione, di Punizione e di Giustizia, ma colui che parla è difficile che trascorra i suoi anni in nove metri quadrati.

Lottando, smascheriamo il castello di fantasmi e le menzogne su cui poggia questa società. Consideriamo le cose in tutta la loro crudeltà, in termini di carne e sangue. Oltre il gioco di specchi deformanti delle ideologie. Oltre i professionisti del discorso e gli specialisti dell’analisi. Spezziamo le false separazioni fra oggettivo e soggettivo, fra sentimento e ragione, fra riflettere e agire: i nostri pensieri vanno al ritmo dei nostri cuori che danno la forza alle nostre mani per agire.
Nella nostra lotta, una delle armi che abbiamo a disposizione è il sabotaggio. L’azione clandestina e distruttrice di chi agisce in un territorio ostile, dietro le linee del nemico. Invece di ingaggiare una battaglia frontale e di soccombere davanti alle difese ipersviluppate del sistema, per impedire la costruzione della maxi-prigione abbiamo proposto il sabotaggio. Danneggiare, nuocere e distruggere gli ingranaggi della macchina che si appresta a costruire questa aberrazione carceraria: le imprese che la costruiranno, gli architetti che tengono la matita in mano, gli ingegneri che calcolano la maniera più economica e sicura per rinchiudere un essere umano, le banche e le istituzioni che la finanziano, i politici che l’acclamano e la giustificano. Mentre il potere prepara il sua valzer di fantasmi a suon di discorsi sul sovraffollamento, sulla sicurezza e la Giustizia, il sabotaggio fa emergere la materialità di tutto ciò che ha a che fare con la maxi-prigione.
Oltre ad impedirne il normale funzionamento, il sabotaggio semina il disordine nelle fila del nemico, che non può sapere da dove arriverà il prossimo colpo. Una volta tocca alle finestre di uno studio di architetti andare in frantumi durante la notte, un’altra volta è un edificio di ingegneri ad essere preso d’assalto di giorno, e un’altra volta ancora le fiamme devastano i macchinari di un cantiere e i depositi dei costruttori di prigioni. Il sabotaggio disorganizza il nemico. Ed è disorganizzandolo che questo diventa incapace di raggiungere i suoi scopi, come quello di imporre una maxi-prigione a Bruxelles.
Perciò, alla larga dai discorsi dei politicanti, dalle chiacchiere con i giornalisti, dalle illusioni legalitarie dell’opposizione cittadinista, dagli ipocriti blablabla. Demoliamo il castello dei fantasmi.
[Ricochets, n. 6, maggio 2015]

Il principale architetto della maxi-prigione e la sua responsabilità

A metà febbraio 2015, alcuni sconosciuti hanno appiccato il fuoco alla casa di tal Philémon Wachtelaer a Bruxelles. Una deflagrazione è risuonata nella notte, bruciando la facciata dell’edificio, l’automobile parcheggiata nel cortile e causando un principio di incendio in una stanza della casa. A generare l’esplosione e il fuoco sarebbe stato un congegno incendiario composto da una bombola di gas immersa in un contenitore pieno di benzina messo sotto pressione.
Colui che è stato preso di mira non è uno qualsiasi. Si tratta infatti del principale architetto della futura maxi-prigione, amministratore generale dell’ufficio di architetti Buro II & Archi+I che si riempie le tasche disegnando le future gabbie della maxi-prigione. Se la sua abitazione è stata presa di mira, probabilmente è perché qualcuno ha voluto chiedergli conto personalmente della sua responsabilità individuale e d’oppressione in questa opera di repressione.
Nelle carceri esistenti è già così, e nella maxi-prigione sognata dal signor Wachtelaer migliaia di individui soffriranno sotto la sferza della Legge, marciranno nelle celle, saranno torturati dai colpi dei guardiani e dalle innovazioni tecnologiche di controllo disegnate dal signor Wachtelaer. E tenteranno di scalare le mura di cui il signor Wachtelaer ha calcolato l’altezza, scaveranno cunicoli per aggirare le fondamenta di cui il signor Wachtelaer ha stabilito lo spessore, segheranno le sbarre che il signor Wachtelaer ha assicurato ai datori di ordine resisteranno ai sogni di libertà. In ogni colpo sferrato contro questo edificio di sofferenza e di tortura legale, contro la sua stessa costruzione, risuonerà altrettanto la responsabilità del signor Wachtelaer, che ha scelto di servire, precisamente e in qualità di gran maestro responsabile, l’opera repressiva. Nessuna sorpresa quindi che l’eco sia già arrivata fino all’uscio di casa sua.
[tr. da La Cavale]