Lo scorso 17 dicembre il Tribunale di Torino ha condannato in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione i quattro sabotatori NoTav rei di aver partecipato, nella notte fra il 13 e il 14 maggio 2013, ad un assalto al cantiere di Chiomonte conclusosi con l’incendio di alcuni macchinari. Se il verdetto di condanna era scontato, dato che nel corso delle udienze i quattro compagni avevano apertamente rivendicato la loro responsabilità nei fatti, lo era assai di meno la sua entità. Il tribunale si sarebbe “limitato” a condannare il «danneggiamento aggravato, la violenza a pubblico ufficiale ed il porto d’arma da guerra» o avrebbe accolto anche l’aggravante di «terrorismo»? Ebbene, per questi giudici di Torino sabotare l’Alta Velocità – per lo meno in questo contesto – è sì un atto illegale da punire, ma non un atto di terrorismo.
Sputa (sulle) sentenze
Notizia che non può che renderci felici in quanto ciò comporta meno anni di galera inflitti. Ma nulla di più. Non era, non è, e non sarà mai un tribunale a stabilire cosa sia (più o meno) giusto e cosa sia (più o meno) sbagliato. Non era, non è, e non sarà mai un tribunale a stabilire cosa non è terrorismo e cosa lo è. La Legge uguale per tutti che pretende di ordinare l’etica, la sensibilità e l’intelligenza di ciascuno, non ha alcun valore ai nostri occhi. Questa (sua) ambizione al conformismo non corrisponde in nulla alla (nostra) ambizione all’autonomia. Lasciamo agli avvocati cantare vittoria per una sentenza “favorevole”, lasciamo i pubblici ministeri piangere la sconfitta di una sentenza “sfavorevole”. Ciò che pensiamo di quell’atto rimarrebbe immutato, quale che fosse stata la sentenza pronunciata il 17 dicembre. È innegabile che, se la matematica non è una opinione, meglio trascorrere 3 anni e mezzo in galera invece di 9. Ma se la lotta contro questo mondo infame non è una scienza matematica, allora…
Allora l’azione diretta contro le strutture e gli uomini e le donne dello Stato non ha bisogno di nessun verdetto, né di condanna né di assoluzione. La prima non è sinonimo di colpevolezza né di coraggio né di ingenuità, la seconda non è sinonimo di innocenza né di viltà né di astuzia. Né santità, né malvagità, anche invertendo i termini. La legge sarà senz’altro un affare fra funzionari di partito, ma non sarà mai un patto di sangue fra complici. La rivolta contro questo mondo trova in sé la propria giustificazione, non elemosina «legittimità» né ad un tribunale di Stato, né ad una assemblea popolare. È un NO che non ha bisogno di alcun coro di approvazione, di nessun applauso di consenso. Può nascere da urgenze collettive, da bisogni insoddisfatti, certamente, ma si alimenta e cresce nella dignità calpestata, nei desideri irrealizzati, nella coscienza offesa, nei sogni infranti, ovvero nella singolarità di ogni essere umano. Ed è questa negazione quotidiana di ciò che ognuno di noi vorrebbe e potrebbe essere nella sua irripetibile diversità, è questa costrizione a rimanere nei comuni limiti di ciò che più banalmente ci è concesso essere – cittadini, cosa pubblica da amministrare – a spingerci a fare la guerra alla società. E a farla singolarmente, con le parole e con i fatti, con gli attacchi solitari e con gli assalti collettivi, nel buio delle tenebre e alla luce del sole. Le sentenze di tribunale non ci interessano, sono buone per riempire le galere di Stato (per il sabotaggio di Chiomonte nel 2013, o per l’agguato a Genova nel 2012, o per gli scontri di Genova nel 2001) ma non le nostre menti né i nostri cuori.
[19/12/14]