Pubblico questo testo dei compagni di Des Ruines perché condiviso quasi in tutto e soprattutto perché pone in essere specifici temi di dibattito riguardo alcune questioni inerenti alla pratica anarchica. In questi periodi in cui l’anarchismo si dibatte fra cittadinismi e politicantismi testi come questo sono molto importanti:
Da qualche anno in qua, vediamo riapparire il termine «prigioniero politico». Un termine che credevamo scomparso da molti decenni, almeno all’interno delle sfere antiautoritarie.
Un termine diventato tipico di diverse sette marxiste o maoiste, di Amnesty International oppure degli oppositori politici borghesi a regimi autoritari come la Russia, la Birmania o l’Iran; oppure, ancora, nel quadro delle lotte dette di “liberazione” nazionale, dai Paesi Baschi al Kurdistan, passando per la Palestina; ma tipico anche dell’estrema destra.
Ecco, in parte, il motivo della nostra inquietudine di fronte al rifiorire di questo termine qua e là per il mondo, in bocca a compagni. E se desideriamo farla finita, oggi e per sempre, con questo termine, non è soltanto perché si oppone a tutte le nostre prospettive antipolitiche, contro tutti coloro che ci vogliono gestire, rappresentare e dominare attraverso l’arma della politica. È anche perché, assieme a questa risurrezione vi è, conscia od inconscia, la conseguenza malsana di creare distinzioni fra i prigionieri basandosi soltanto sui “crimini” di cui vengono accusati dallo Stato, attraverso la lente del Codice penale. Ciò crea una gerarchia sociale, in base alla presunta virtù degli atti incriminati, fra chi merita più di altri di essere liberato o sostenuto. Azzerando tutte le secolari critiche anticarcerarie degli anarchici e degli antiautoritari. Si tratterebbe perciò di esprimere la propria solidarietà soltanto nei confronti di prigionieri detenuti a causa delle loro idee, a scapito del resto della popolazione carceraria, completamente dimenticata o utilizzata giusto per avvalorare sulla sua pelle un qualche discorso.
Ma cos’è un prigioniero politico, esattamente? Vediamo dalla parte del dominio: per il Consiglio d’Europa, per esempio, un detenuto deve essere considerato come prigioniero politico se la sua detenzione è stata imposta in violazione di una delle garanzie fondamentali enunciate nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in particolare «la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, la libertà d’espressione e d’informazione e la libertà di riunione e di associazione». Ma anche se la detenzione è stata imposta per ragioni meramente politiche, senza rapporto con una qualunque infrazione. Ma questo tipo di chiacchiere democratiche riguarda gli anarchici?
Per essere chiari, noi sosteniamo che la maggior parte delle detenzioni, oggi e da sempre, sono dovute più a contesti e a ragioni politiche che a particolari infrazioni. Perché, anche se in un processo le accuse si basano quasi sempre su fatti precisi, sono pur sempre lo Stato ed il suo sistema giudiziario a decidere in quale misura reprimere questo o quell’atto specifico, questa o quella parte della popolazione. Perché la repressione di tutti gli atti detti «illegali» è impossibile tecnicamente, a causa del numero troppo elevato di leggi, del numero degli effettivi della polizia e di altre motivazioni tecniche, o anche politiche, dato che la tolleranza zero provocherebbe maggiori rischi di rivolta. La repressione dell’illegalità (contro cui l’incarcerazione è uno dei mezzi) risponde quindi ad una strategia e ad un’agenda politiche.
Non si sbattono forse le persone in galera allo scopo di fare aumentare o diminuire le cifre utili alle ambizioni elettorali dei politici, per dimostrare un discorso o per gettare un po’ di polvere negli occhi? Non si incarcerano principalmente gli indesiderabili che non si vogliono vedere altrove nella società, indesiderabili che molto spesso sono alle prese con le istituzioni repressive a causa della loro povertà e quindi della loro incapacità di difendersi con gli strumenti che la giustizia sostiene di «garantire» loro, come gli avvocati, che lavorano solo se pagati profumatamente, o per chi ha un reddito e una residenza, un lusso per la maggior parte dei detenuti. Tutto viene gestito in modo che le prigioni siano piene di poveri, questo è sicuro.
Allora, se la giustizia non è che una giustizia della borghesia contro i poveri (più o meno) indocili, una giustizia di classe, quale prigioniero non è politico? Se la prigione ha delle autentiche funzioni politiche e sociali, come il mantenimento dell’ordine e la pace sociale, allora quale prigioniero non è politico? Per dirla in maniera più semplice, dato che la prigione è uno strumento politico, allora tutti i prigionieri sono politici. In tal senso, tanto vale buttare il termine nel dimenticatoio della politica, appunto. Perché quest’ultima non è qualcosa che rivendichiamo, ma qualcosa che vogliamo distruggere in ogni sua manifestazione.
Per di più, possiamo anche mettere in dubbio questo termine per quanto riguarda i suoi aspetti «innocentisti». In effetti, viene spesso utilizzato per qualificare il carattere “ingiusto” di una incarcerazione, come spesso avviene con Mumia Abu-Jamal, Georges Ibrahim Abdallah o le Pussy Riot, tanto per utilizzare degli esempi fra i più celebri o mediatizzati attualmente. Sovente, questo si palesa attraverso l’insistenza a voler dimostrare che si è “innocenti”, poiché detenuti unicamente a causa delle proprie idee: esigere uno statuto di prigioniero politico significa esigere la libertà d’espressione (o il suo rispetto, in quei paesi in cui essa è già ufficialmente e teoricamente riconosciuta). Ciò comporta al tempo stesso l’effetto perverso di giustificare una detenzione dovuta a “veri” crimini, che non rientrano nell’ambito della libertà d’espressione. Nel caso in cui i prigionieri abbiano con ogni evidenza commesso atti di cui sono accusati e li riconoscano, definirli «prigionieri politici» significa voler provare che quegli atti non erano che una risposta a leggi “ingiuste” ed “illegittime”, a fronte di certe altre (quelle per cui sono rinchiusi gli altri prigionieri) “giuste” e “legittime”. Alla fine, nei due casi si tratta di affermare la loro innocenza rendendoli non responsabili, in una maniera o in un’altra, oppure cercando di rendere i loro atti legittimi agli occhi del nemico. Un approccio che non converrebbe, per esempio, per dei rapinatori, e che comunque non ha nulla di anticarcerario o di rivoluzionario. Si tratti di esigere la «libertà d’espressione» o di protestare contro l’«ingiustizia» di una legge, entrambe queste manovre non sono che richieste fatte allo Stato in vista di riformarlo, migliorando il suo dominio sulle nostre vite.
In quanto anarchici, non intendiamo entrare in un dibattito politico (con o senza potere) per definire cosa sia moralmente giusto e virtuoso e cosa non lo sia. Da profani, lasciamo tutto ciò alla loro giustizia e alle chiese di ogni tipo. La sola cosa che ci interessa, riguardo la prigione, è la sua distruzione totale e definitiva, senza trattative e senza transizione. E sarà soltanto attraverso la lotta e la rivolta, all’interno come all’esterno, che vi arriveremo.
Non stiamo qui affermando che tutti i prigionieri meritino una incondizionata solidarietà. Perché non consideriamo la solidarietà un debito o un dovere, ma un’arma di reciprocità nella guerra contro l’esistente. Ecco perché la nostra solidarietà va a tutti i prigionieri in rivolta che, senza mediazioni, lottano contro le condizioni a cui sono sottoposti, senza particolari distinzioni. Perché, anche se non condividiamo il pensiero o gli atti di tutti i prigionieri e a volte possiamo anche disprezzarli, dobbiamo essere chiari su un punto: ci opponiamo alla detenzione in tutte le sue forme e non la auguriamo nemmeno ai nostri peggiori nemici. La relazione che intratteniamo con i prigionieri in rivolta è, quindi, una relazione interessata, perché si tratta dell’incontro fra interessi che convergono, quelli della rivolta e dell’insurrezione. Non è questione di martiri o di grandi abnegazioni… Non si tratta di altruismo, si tratta soltanto di compagni, quindi di complicità, che non dev’essere confusa con la carità.
Certo, è più facile per noi dare la nostra solidarietà a compagni piuttosto che a sconosciuti con cui non abbiamo una storia comune, perché il come e il quando ci sono più facilmente e rapidamente accessibili ed identificabili, ma la solidarietà deve oltrepassare le frontiere identitarie dei piccoli gruppi, per allargarsi a tutti i prigionieri della guerra sociale e tendere alla libertà di tutti, altrimenti non avrebbe nulla di rivoluzionario, sarebbe soltanto un vuoto segno di riconoscimento fra persone avvedute, senza altro valore di una qualsivoglia forma di solidarietà comunitaria e identitaria.
A partire da ciò, quando sentiamo dei rivoluzionari antiautoritari dichiararsi «prigionieri politici», o peggio ancora esigere tale statuto dal nemico, deploriamo un simile modo di distinguersi dagli altri prigionieri. Qual è la volontà che ci sta dietro, se non quella di far valere l’«illegittimità» della propria detenzione o di chiedere al nemico un trattamento differenziato, dei privilegi o un’amnistia?
Comprendiamo l’interesse di essere raggruppati fra rivoluzionari, in prigione; la vita quotidiana è più fluida e i prigionieri possono forse capirsi meglio (ma a che pro, esattamente?). Ma, d’altro canto, separarsi dagli altri detenuti è davvero una buona idea per un agitatore rivoluzionario, qualcosa che molti fanno già fuori rinchiudendosi in modi di vita comunitari, all’interno di centri sociali e contro-culturali in ambienti sclerotizzati di consanguineità?
D’altra parte non è un caso se, come in Grecia o in Italia, lo Stato ha piuttosto la tendenza a raggruppare i prigionieri anarchici fra di loro, separati dagli altri detenuti. Si tratta proprio di evitare che le loro idee e le loro pratiche di rivolta e di lotta si diffondano fra il resto della popolazione, di evitare l’infezione. Si tratta di assicurare la pace e l’ordine separando quelli che, riuniti, potrebbero far sudare ancor di più le amministrazioni penitenziarie.
Noi rifiutiamo, quindi, la distinzione fra «prigionieri politici» e «prigionieri comuni», poiché questa diventa inevitabilmente una giustificazione del sistema carcerario. Perché non ci sono prigionieri politici, oppure tutti i prigionieri sono politici, quindi nessuno lo è.
Solidarietà con i prigionieri e le prigioniere della guerra sociale,
libertà per tutti e tutte.
Alcuni anarchici antipolitici ed antisociali per l’infezione
[Des Ruines, n. 1, gennaio 2015]