Archivio mensile:Dicembre 2009
Trento – Incendiato escavatore nel cantiere della base di Mattarello
Apprendiamo dai quotidiani locali che nella notte tra il 3 e il 4
dicembre un escavatore, nel cantiere preliminare per la base militare
di Mattarello, è stato distrutto da un incendio.
Bologna – Falso allarme bomba in tribunale e altro
Sfogliando "L’informazione" di venerdì 4
dicembre veniamo a sapere che la mattina precedente il tribunale è
stato evacuato a seguito di un’allarme bomba rivelatosi poi falso.
"Verso le 9.30 una voce mascile ha telefonato al centralino di via
Garibaldi annunciando due bombe che sarebbero esplose di lì a poco. A
quel punto è scattato il piano di evacuazione per facilitare il lavoro
di bonifica da parte della polizia. Dapprima del vecchio Tribunale dove
si svolgono le udienze del monocratico e poi in via Garibaldi. Verso le
11.30, al termine dei controlli, sono rientrati tutti e sono riprese le
normali attività.
Sempre dai giornali :
Qualche giorno fà il carlino riportavano anche la storia di un
signore di una certa età pizzicato nottetempo nei pressi della
struttura psichiatrica in cui era ospite durante il giorno. Lì veniva
fermato dai carabinieri con,
a loro dire, addosso cacciaviti
coltelli ed una molotov. Secondo gli inquirenti le sue intenzioni
sarebbero state quelle di fare irruzione nel posto "per danneggiarlo".
Atene – Rilasciati i 5 compagni italiani | Solidarietà con tutti gli arrestati
Apprendiamo dai media che i 5 compagni italiani
arrestati durante gli scontri di Atene sono stati rilasciati e sono
stati consegnati loro i passaporti. Dovranno presentarsi a processo il
16 dicembre.
Che la lotta e la rabbia dilaghino ovunque.
La rivolta brucia ancora…
Solidarietà agli/alle arrestati/e!
Il 6 dicembre dello scorso anno, nelle strade di Exarchia ad Atene,
la polizia greca uccide a freddo, dopo uno scambio di insulti, lo
studente quindicenne Alexis Grigoropoulos.
Questo evento è stata la scintilla che ha fatto esplodere rivolte spontanee in tutta la Grecia.
Nonostante
i media nazionali ed esteri abbiano tentato di coprire e minimizzare
gli eventi, in molti non hanno creduto alla solita storia della “mela
marcia” all’interno dell’apparato poliziesco. Anzi, le rivolte
generalizzate sono nate proprio dalla consapevolezza diffusa che
l’autorità uccide e, se non uccide, rende la vita un inferno, in Grecia
come nel resto del mondo.
Nel corso di questo anno le proteste e
le lotte si sono estese su tutti i fronti, ma anche la repressione si
è intensificata in tutte le sue forme:processi farsa, arresti
preventivi, perquisizioni, cariche della polizia ai cortei, squadracce
di fascisti scortate dalla polizia che attaccano spazi temporaneamente
liberati.
Negli scorsi giorni numerosi compagni da tutta Europa
sono accorsi in Grecia per ricordare la morte di Alexis e dimostrare
che quella rabbia brucia ancora.
Il 5 dicembre un’operazione di polizia ha portato all’arresto di diversi manifestanti tra i quali alcuni nostri compagni.
Oggi
siamo qui non solo per portare solidarietà agli arrestati, ma perché la
loro lotta è anche la nostra e per ricordare ai vari potenti che la
possibilità di sovvertire l’esistente non è mai definitivamente sopita.
Martedì 8 dicembre alle ore 11
Presidio presso il consolato Greco in via Gramsci, 5 Napoli
Anarchici e anarchiche solidali/e
“A – Cerchiata” da Eléuthera.
“A – Cerchiata” è il titolo del volume
edito da Eléuthera. 128 pagg. ill., euro 20,00. Per ulteriori info: www.eleuthera.it |
Graffitata
sui muri della protesta, ma impressa anche su zainetti, magliette,
ciondoli e cappellini, fino al più improbabile intimo maschile, la
A-cerchiata è un segno talmente conosciuto e riconosciuto che ha finito
con l’essere considerato un simbolo tradizionale dell’iconografia
libertaria.
In realtà, come ci raccontano i suoi ideatori, ha poco
più di quarant’anni: la A-cerchiata nasce come progetto nel 1964 a
Parigi, all’interno di una piccola rete di giovani anarchici, ma
comincia la sua vita pubblica nel 1966 a Milano sui volantini e
manifesti della Gioventù Libertaria. Di lì a poco, l’esplosione del
1968 – e la provvidenziale invenzione delle bombolette spray – farà
rotolare il simbolo nelle strade di tutto il mondo.
Questa inedita storia per immagini, insieme ai racconti che le
accompagnano, ne ripercorre la sorprendente, e spesso bizzarra,
diffusione planetaria sulla spinta della passione libertaria prima e
della cultura punk poi, fino al recente sfruttamento commerciale.
Un viaggio nell’immaginario contemporaneo che dà conto delle molteplici
interpretazioni – spesso inaspettate, talvolta contraddittorie – di un
simbolo nato con una forte connotazione specifica e diventato nel tempo
uno dei segni più usati per significare non solo anarchia, ma anche
rivolta, rifiuto, anticonformismo, trasgressione nelle più svariate
declinazioni.
Milano 1966 – Milano 2008
Intervista
ad Amedeo Bertolo
Amedeo
Bertolo aveva 25 anni quando, nel 1966, tracciava su matrici per
ciclostile le prime A-cerchiate «italiane». Docente universitario, si è
sempre occupato di editoria libertaria. Nel 1971 è tra i fondatori del
mensile «A rivista anarchica» e dal 1986 è uno dei responsabili di
Elèuthera.
Sei uno dei padri della A-cerchiata…
Solo
un padre adottivo. La A-cerchiata è stata ideata e «lanciata» a Parigi
nel 1964. Ma il lancio è stato un flop. A Milano, due anni dopo,
abbiamo ripreso e rilanciato l’idea. Questa volta il lancio ha
funzionato.
Quando hai cominciato a fare A-cerchiate ti aspettavi in qualche modo questo successo mondiale?
No.
Nessuno di noi della Gioventù Libertaria si aspettava gran che. O forse
sì: l’unico che fece qualche obiezione all’adozione del simbolo, lo
fece argomentando che era troppo semplice e dunque «falsificabile».
Chiunque avrebbe potuto firmare così qualsiasi cosa. Ne temeva cioè un
eccessivo successo (la sua generale identificazione come «firma»
anarchica) per potenziali usi distorti o comunque indesiderati.
Riesci
a ricostruire in che modo la A-cerchiata sia arrivata in Germania,
negli anni Settanta, diventando il simbolo degli Autonomen tedeschi? È
stata modificata o si è mantenuta quella «originale»?
Non
so come sia avvenuto il passaggio. Ormai la A-cerchiata aveva
cominciato a viaggiare libera per il mondo. Ma posso immaginare che la
scelta della A-cerchiata come simbolo sia stata fatta dagli Autonomen
tedeschi per connotarsi in senso libertario rispetto agli autonomi
italiani, di formazione marxista, che firmavano con la
falce-e-martello. E posso immaginare che la «loro» A fuoriesca dal
cerchio (come quella dei punk) per comunicare un ulteriore senso di
«rottura» dell’ordine e di eterodossia anche rispetto alla tradizione
anarchica. Ma forse è stata solo una casuale scelta estetica,
moltiplicatasi per imitazione. Oggi quella A-cerchiata è usata dagli
anarchici indifferentemente con quella «canonica», un po’ ovunque.
Qual è l’uso più originale, o che ti ha fatto più piacere, tra tutte le declinazioni della A-cerchiata che hai incontrato?
Ti
posso dire qual è quella che mi piace di più, per la sua eleganza
formale. È quella disegnata nel 1972 da mio fratello, Gianni, per la
testata della rivista anarchica «A»: una A con le grazie, in negativo
su fondo circolare nero, che è una mutazione della precedente testata,
anch’essa molto bella, a mio parere.
Sembri
piuttosto affezionato all’uso «filologicamente corretto» del simbolo:
le tue A-cerchiate preferite stanno nei margini del cerchio, non
sbordano, non hanno fronzoli… cosa ne pensi delle interpretazioni,
degli usi e abusi, dal punk al mondo della moda?
Pregevole
flessibilità del segno. E penso che siano inevitabili gli usi impropri,
abusivi, stravolti, commerciali di un segno che si è inscritto
nell’immaginario collettivo.
È
incredibile che, nel giro di poco più di quarant’anni, la A-cerchiata
si sia inserita talmente bene nei flussi dell’immaginario da perdere di
fatto le sue origini storiche a favore di una sorta di mitologia (come
le leggende diffuse su Wikipedia: la A-cerchiata attribuita a Proudhon,
quella avvistata sull’elmetto di un miliziano spagnolo…).
In un recente romanzo (Death at Victoria Dock,
di Kerry Green), ambientato a Melbourne nel 1928, un gruppo di emigrati
lettoni usa come segno distintivo la A-cerchiata tatuata sulla
clavicola (gli uomini) e sul seno (le donne). Mi aspetto che su
Internet prima o poi qualcuno vi si riferirà per «dimostrare»
l’anzianità del segno… Che nascano leggende attorno a un simbolo è
forse inevitabile e denota il suo successo. E poi forse piace più
un’origine mitica di una tutto sommato banale.
A
questo proposito, ti lancio una provocazione: l’A-cerchiata non ha
forse bruciato le tappe, fino a trasformarsi da simbolo unificante dei
movimenti anarchici in simbolo tuttofare, per indicare genericamente
«caos»? La cosa ti disturba o dopo tutto va bene così?
Mi
sembra che il significato di «caos» (magari nel senso della teoria del
caos) o meglio di rivolta contro-tutto-e-contro-tutti (persino nella
sua versione banalizzata e consumistica) possa convivere con la
connotazione più propriamente anarchica. Effetti non previsti di moto
caotico.
Mi è capitato di incontrare
dei ragazzi di Pieve Vergonte, un paese della Val d’Ossola, che mi
parlavano della A-cerchiata come di un simbolo in origine anarchico, ma
arrivato a loro attraverso il punk inglese… Dobbiamo rassegnarci a
una cultura anglo-sassone che sembra fagocitare tutto (e magari
«mettere sotto copyright» le prossime invenzioni per mantenerne la
correttezza filologica), oppure è un obiettivo sensato parlare di
anarchia in tante lingue, in molti modi, scommettendo sulla traduzione
culturale e la re-interpretazione creativa?
La seconda che hai detto.
Dopo quarant’anni la A-cerchiata è invecchiata come la fiaccola anarchica oppure può ancora funzionare?
Il
simbolo mi sembra ancora efficacissimo, sia come segno di rivolta
antiautoritaria sia come «firma» dei molteplici anarchismi
contemporanei. Il problema rimanda piuttosto alle forme e ai contenuti
delle rivolte e degli anarchismi, ma questo è un altro discorso.
Pino Cacucci
scrittore
Ne
ho viste scorrere dai finestrini dei treni, e continuo a vederne. Ogni
volta mi rincuorano: qualcuno, su quel muro, si è manifestato
libertario e refrattario al potere. Ne ho viste persino dai finestrini
di corriere stravaganti a Città del Messico, anche se spesso avevano le
zampe lunghe, che fuoriescono dal cerchio, e un po’ mi infastidiscono,
perché io le ho sempre tracciate ben chiuse nel tondo e così
dev’essere, non capisco perché i punk pretendano di usarle ma poi si
piccano di sforarle, quasi a volersi distinguere… Con il trascorrere
degli anni devo essere diventato un anarchico conservatore: le
A-cerchiate hanno le zampe che finiscono dove passa il cerchio, non
sforano, perdìo.
Le amate A circoscritte in quella sorta di sol
dell’avvenire, o sfera di mondo dell’Utopia, mi riportano ai primi anni
Ottanta, quando le vedevo a Parigi e a Barcellona, e prima ancora,
all’adolescenza ligure, quando contribuii a fondare il gruppo
Buenaventura Durruti del Tigullio, e allora ne tracciai tante che se i
comuni costieri che vanno da Sestri Levante a Rapallo – e in qualche
nottata brava pure Portofino, tiè – con Chiavari di mezzo dove vivevo,
mi chiedessero il risarcimento per i muri rimbiancati, sarei rovinato.
E tralascio il comune di Bologna, dove, soprattutto nel 1977, ho dato
il mio apporto grafico alla fioritura sia esterna che interna
dell’università, con il dams privilegiato: anche il pianoforte del
Dipartimento di Musica era istoriato di A-cerchiate…
Da imberbe, ero più timido: sul diario, sui quaderni, pure sul banco.
Però ero più preciso: con righello e goniometro, che diamine, anche per
fare la rivoluzione ci vuole tecnica e paziente cura dei particolari, i
frettolosi e superficiali diventano spesso stalinisti e successivamente
si iscrivono a un partito di governo.
Già, quanto tempo è che non traccio una A-cerchiata? Mi pare una vita.
Un’altra vita? No, è sempre questa, la miA: anarchici non si diventa a
un certo punto e per un certo tempo, anarchici si nasce, si vive e lo
si resta fino all’ultimo respiro.
Mi fermo qui, esco un momento, scusate, in cantina dovrei avere ancora
una bomboletta rimasta a metà… Mi è appena venuto in mente che in
cantina c’è una parete libera dalle mie sette biciclette.
Matteo Guarnaccia
artista visivo e saggista
Occupandomi
di immagini e immaginario, ho sempre provato interesse per i simboli,
l’araldica e le figure allegoriche, elementi di comunicazione capaci di
sintetizzare ed evocare concetti anche elaborati. Ho riscoperto
recentemente un mio disegno del 1971, uno studio sulla A-cerchiata,
trasformata in un buffo animaletto monoculare. Le lettere dell’alfabeto
trasformate in rappresentazioni fantastiche non sono una novità,
appartengono alla grande tradizione dei capolettera dei miniaturisti
medievali (tendenza seguita persino nella cultura aniconica araba, dove
i calligrafi indulgevano in questi trucchetti). A quasi quarant’anni di
distanza, quando gli amici della Fai di Reggio Emilia mi hanno chiesto
di disegnare un manifesto per il congresso nazionale, ho ripescato la A
animata, aggiungendovi una nuova versione che cammina su un uroboro,
l’eterno ritorno e la buñueliana Via Lattea.
È interessante il fatto che l’anarchia, una filosofia/movimento
politico che ha sempre negato, deriso, combattuto i simboli, sino a
sfiorare una certa iconoclastia, abbia sentito a un certo punto della
propria storia la necessità di crearsene dei propri. Un segno che la
psiche umana, al di là della razionalità autoimposta, si muove
costantemente a suo agio nella foresta simbolica. Nel dopoguerra, in
sintonia con il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa, dei
primi vagiti della società dello spettacolo, il minimalismo del colore
nero (o rosso/nero) era diventato inadeguato per colpire l’occhio
smaliziato del popolo. L’impasse venne superata grazie alla geniale
creazione grafica dell’artista Gerald Holtom, il cosiddetto «simbolo
della pace», logo del movimento antinucleare inglese Cnd dal 1958.
Dalla metà degli anni Sessanta, la A-cerchiata ne divenne un’erede
naturale, un segno graficamente impeccabile, adatto a essere disegnato
agevolmente sui muri o sugli eskimo, che conquistò i favori dei giovani
contestatori antiautoritari. Dopo anni di soggezione rispetto alla
potenza iconografica della falce-e-martello, anche l’area libertaria
aveva finalmente un suo logo riconoscibile e di immediata lettura.
Ma la metamorfosi non era finita, nel 1976-77 il simbolo subisce una
modifica sostanziale, perde la fissità geometrica, e diventa nervoso e
dinamico, la A straborda dal cerchio spezzandolo. È in questa versione
che diventa un logo popolare, usata come elemento decorativo sugli
abiti sovversivi prodotti dalla coppia di stilisti agitprop Malcolm
McLaren e Vivienne Westwood, gli «inventori» del punk. È grazie ai loro
sforzi che i ragazzini londinesi in piena crisi antagonista diventano
improvvisamente sensibili al fascino della parola anarchia – anche se
la collegano più a Syd Vicious che a Bakunin. La nuova A-cerchiata
viene sviluppata (o degradata, a seconda dei punti di vista) su ogni
supporto tessile rivelandosi come una delle grafiche più popolari del
periodo. La fascia rossa da portare al braccio con la scritta «Chaos»,
ovviamente con la A-cerchiata, diventa un oggetto cult.
Non è più tempo di bandiere, ormai sono gli abiti che si trasformano
direttamente in strumento di propaganda e di cospirazione, in
evoluzione tessile dei volantini. Grazie a testimonial che avrebbero
fatto la gioia di Cesare Lombroso, i Sex Pistols, le creazioni della
Westwood irrompono come ordigni incendiari nei guardaroba e da lì nel
paesaggio urbano. La trovata della coppia londinese troverà imitatori
in molte blasonate case di moda negli anni a venire. Il «decorativismo
fai da te» attuato sul proprio abbigliamento (spray o pennarello)
diventerà una costante dello street style. È davvero
singolare la deriva stilistica del simbolo di un movimento che sino a
quel momento aveva offerto come massimo contributo all’abbigliamento la
cravatta lavallière nera. Anzi, l’anarchismo aveva abolito tout court
la moda quando tutti gli abitanti di Barcellona tra il 1936 e il 1939
rinunciarono di colpo alla diversificazione sartoriale optando per una
democratica tuta blu unisex da operaio (intera o salopette) e scarpe
espadrillas. Ma forse era la moda stessa che si era estinta nell’estasi
rivoluzionaria.
Clelia Pallotta
studiosa di comunicazione
Quella
A-cerchiata sui muri, negli anni della militanza politica, mi sfidava a
visioni più energiche e lievi e dalle bandiere nere, impreviste nei
cortei tra tanto rosso, ammiccava. E anche gli anarchici, soli sotto
alle bandiere, mostravano la serenità compatta di chi sta dentro a un
ideale e si alimenta di un’utopia che non ha bisogno di conferme. La A
chiusa nella perfezione del cerchio, decisa come un timbro, chiara come
un grido. Simbolo magico, figura geometrica, segno evocativo di mondi
fantastici. Marchio eloquente, potente, che trasporta valori e produce
racconti. Regala un’aura di trasgressione a chi lo adotta cercando
identità. Eppure ha una forza melanconica, contiene nostalgia per cose
lasciate o non ancora trovate: addio Lugano bella, scacciati senza
colpa gli anarchici van via, a predicar la pace ed a bandir la guerra
per un mondo senza dominatori e senza ingiustizia.
Marco Pandin
A rivista anarchica
La
provocazione punk è stata totale. Il suono assordante e distorto, la
tecnica approssimativa o mancante, il canto stonato e urlato si
traducevano nel formidabile impatto visivo delle copertine dei dischi:
colori violenti in forte contrasto oppure il più economico bianco e
nero, strappi, graffi, bruciature e tagli. Netta ed evidente la rottura
con l’immaginario e il gusto degli anni precedenti: tanto il rock era
divenuto complicato quanto il punk era destrutturato e inconsistente,
dove i testi s’erano fatti poetici ora si celebrava con un linguaggio
scurrile lo sbando in attesa della guerra atomica.
Molti fanno risalire l’inizio del cortocircuito tra punk ed anarchia al primo singolo dei Sex Pistols Anarchy in the UK,
pubblicato nel novembre 1976: «Sono un anticristo, sono un anarchico /
Non so quello che voglio ma so come ottenerlo: voglio distruggere…». Ma
la prima A-cerchiata sbattuta sulla copertina di un disco a marchiare
consapevolmente un progetto rivoluzionario, del quale la musica
costituiva solo una strategia di comunicazione, è stata quella dei
Crass. Il gruppo era formato dagli occupanti di una comune hippie
anarchica di Epping, nella campagna a nord di Londra. Nell’estate del
1977 riuscirono a recuperare un minimo di attrezzatura tecnica e un
repertorio di cinque-sei pezzi, e decisero di chiamarsi Crass (sta per volgare, indecoroso). Il gruppo registrò in un piccolo studio casalingo il proprio debutto discografico, The feeding of the 5,000, dal quale fu poi costretto a sopprimere una canzone, Asylum
(un’invettiva femminista contro l’oppressione religiosa) perché
ritenuta indecente dai gestori dello stabilimento che doveva stampare
il disco. Si decise di pubblicare comunque e per conto proprio quella
canzone censurata, diffondendola con l’aiuto di un distributore
indipendente: questo sforzo venne premiato dalla visita premurosa di
Scotland Yard alla comune di Epping, già allertata da numerose
segnalazioni e da alcune denunce per vilipendio. Un processo per
blasfemia non bastò a fermarli, e certo contribuì a far nascere attorno
ai Crass un vasto movimento internazionale, centinaia di piccole
formazioni radicali e marginali impegnate ognuna a suo modo a sabotare
l’ingranaggio del sistema. Il giro anarcopunk si ingrossava, e il
signor padrone se ne accorse ben presto: l’A-cerchiata si trovò, spesso
a sproposito, per bieca scelta pubblicitaria, a «marchiare» numerose
produzioni discografiche degli anni Ottanta.
L’anarchia quindi
commercializzata come atteggiamento «moderno» e menefreghista in
contrapposizione all’impegno e al rigore del vecchiume ideologico,
anarchia come segno grafico innovativo per chi desiderava distinguersi
dalla massa, anarchia come strategia pubblicitaria per vendere
l’invendibile. Significativa è la dichiarazione di un membro dei Flux of Pink Indians,
uno dei più importanti gruppi anarcopunk inglesi: «Ci chiamavamo
Epileptics ma abbiamo deciso di cambiare nome perché non c’era nessuna
A da poter cerchiare».
Una preoccupazione per certo condivisa da numerosi altri gruppi, non soltanto inglesi.
Marco Philopat
scrittore e agitatore culturale
Nel
1981, i primi concerti che i punk milanesi organizzarono nella casa
occupata di via Correggio 18, nel futuro capannone del Virus, erano
contro la schiavitù delle tossicodipendenze. Per l’occasione
prepararono una mascherina per fare le sprayate sui muri con una bella
A-cerchiata la cui punta spezzava in due una siringa. Era il periodo
che l’eroina falcidiava i pochi punk presenti in città, quindi la
dicitura sotto quell’icona diceva: «Distruggi le tue illusioni, non la
tua vita»… A ripensarci oggi viene quasi da ridere per l’ingenuità
moralista espressa da questo semplice slogan, ma vi assicuro che fu una
cosa importante perché l’eroina rappresentava, e forse ancora oggi
rappresenta, l’ultima frontiera della trasgressione, quella più
difficile da varcare, per dei giovani ribelli, disperati e
autolesionisti, che volevano dimostrare al resto del mondo di essere
coraggiosi protagonisti di un repentino e pericoloso cambio
generazionale. I punk allora si dividevano in due: chi si faceva e chi
no. Inutile dire che i «militanti» di entrambe le componenti si
consideravano anarchici, fosse solo perché Johnny Rotten aveva gridato Anarchy in the UK.
Perciò mettere la siringa spezzata al posto della classica arma che
usavano i londinesi Crass per ribadire il loro no alla guerra, risultò
particolarmente efficace. Quelli che non si facevano continuarono le
loro attività per diversi anni, quelli che si facevano o la smisero e
si unirono ai non tossici o cominciarono ad allontanarsi schifati della
troppa e forzata politicizzazione del punk. Questi furono i primi di
una lunga serie di critici del nulla, poi diventati parecchi sotto
altre forme, e al giorno d’oggi sono la marea di debosciati tifosi
della musica che sostengono che il punk era solo concerti e
divertimento.
Ma quelli dell’A-cerchiata non scherzavano affatto, e
anche se pogavano e si divertivano lo stesso, erano sempre in prima
fila per fronteggiare polizia, fascisti e benpensanti in tutto l’arco
della giornata, settimana, mese, anno o intera vita che fosse… Non si
può sfuggire a tanta radicalità a corrente continua. Punk e A-cerchiata
un connubio minacciosamente perfetto…
La tomba di Bakunin – Alessio Lega
Cinque anarchici del sud. Una storia degli anni Settanta
Capitolo 8
La rivolta di Reggio Calabria
8.1 L’insurrezione di un’intera città
Il
7 giugno 1970 la popolazione calabrese si reca alle urne per le sue
prime elezioni regionali. Si tratta di un avvenimento di portata
storica, che dovrebbe riunire i cittadini della regione garantendo loro
maggiore autonomia rispetto al governo centrale, ed offrire nuove
possibilità di sviluppo. Si assiste invece al ritorno al Medioevo, alla
lotta per la supremazia politica di una città sull’altra. Per due
lunghissimi anni Reggio vive una realtà di morti, di rancori, si
trasforma in una piazza d’armi, nel simbolo morale di una rivolta che
viene dal Sud.
Al termine della ribellione la
città conterà cinque morti, dieci mutilati e invalidi permanenti, oltre
cinquecento feriti tra le forze dell’ordine e un migliaio tra i civili.
Milleduecentotrentuno persone denunciate per duemila reati complessivi.
Solo nel periodo luglio- settembre 1970 ci furono diciannove scioperi
generali, dodici attentati dinamitardi, trentadue blocchi stradali,
quattordici occupazioni delle stazioni, due della posta, una
dell’aeroporto, quattro assalti alla prefettura e quattro alla
questura. I danni economici alla città, paralizzata per molti mesi in
quasi tutte le sue attività, furono dell’ordine di diverse decine di
miliardi di lire.
La
rivolta nasce quasi per caso. Reggio Calabria, città di frontiera,
provincia emarginata e priva di qualunque modello di sviluppo, e da
tempo potenziale polveriera per la sua disperata situazione
economico-sociale, esplode contro la convocazione del Consiglio
Regionale a Catanzaro.
Dietro la protesta c’è una
situazione socio-economica di notevole gravità. Non più di cinquemila
persone in tutta la Calabria sono occupate stabilmente in grandi
aziende. A Reggio dodicimila persone vivono in squallide casupole,
alcune delle quali risalivano al 1908, anno del terremoto che aveva
distrutto la città. In queste circostanze, le possibilità offerte dal
settore pubblico erano di vitale importanza. Reggio, una delle città
più povere d’Italia, doveva diventare capoluogo regionale. Lo stesso,
del resto, poteva dirsi di Catanzaro, solo lievemente meno misera.
L’orientamento
ufficiale del governo è di attribuire il capoluogo di regione a
Catanzaro, la sede dell’Università a Cosenza e l’istituzione di un
nuovo polo siderurgico a Reggio, come risarcimento . Nei primi mesi del
1970 i timori e le incertezze che Reggio perda il suo posto di guida al
centro della Regione si diffondono tra la classe politica e, in seguito
sempre più forti, tra la cittadinanza.
La
popolazione insorge il 13 luglio 1970; in mattinata si riunisce a
Catanzaro il Consiglio regionale, nel quale sono assenti i cinque
consiglieri della DC e il socialdemocratico eletti nella provincia
reggina, che inviano un lungo telegramma nel quale sottolineano di non
riconoscere valida la riunione di Catanzaro in quanto il capoluogo
della Calabria è Reggio.
In città, nel frattempo,
si tiene una controassemblea alla presenza di parlamentari della
provincia, consiglieri comunali e provinciali, rappresentanti degli
ordini professionali, sindacati e cittadinanza, nel corso della quale
viene indetto uno sciopero generale. Iniziano i primi blocchi stradali,
e a sera la situazione è già così tesa dafar affluire agenti di polizia
e carabinieri da altri centri della provincia. Comincia a delinearsi
inoltre la spaccatura politica, sia nazionale che locale: il PSIUP
condanna la scelta della Dc di non aver voluto partecipare ai lavori
del neonato consiglio regionale, delegittimando così l’istituzione
regionale, e in una nota “respinge il tentativo della Dc reggina di creare un clima di rissa e divisione”. La direzione provinciale del PLI al contrario esprime “solidarietà a quanti si battono per l’affermazione del diritto di Reggio ad essere capoluogo di regione” e invita i suoi aderenti “ad essere promotori e sostenitori di ogni iniziativa tendente a tal fine”.
Il
14 luglio iniziano le prime barricate, innalzate con qualsiasi cosa
capiti sottomano. In serata la situazione precipita improvvisamente, e
la prima giornata di scontri si conclude con venti feriti e la totale
adesione della popolazione allo sciopero: anche i ferrovieri
aderiscono, abbandonando i convogli in maniera tale che nessun treno
possa proseguire. La cittàèisolata .
Alle 23:30 del
15 luglio un gruppo di carabinieri trova, in una traversa del corso
principale, il cadavere di Bruno Labate, 46 anni , frenatore delle
ferrovie. Si tratta della prima vittima dei fatti di Reggio. Nei giorni
seguenti la guerriglia urbana si fa sempre più cruenta, con il
tentativo di assalto alla questura, l’incendio della stazione
ferroviaria di Reggio Lido, l’interruzione delle strade. I disordini si
estendono anche a diversi centri della provincia reggina;
particolarmente grave è il blocco di Villa San Giovanni, unica via di
collegamento con la Sicilia.
“Sarebbe
parziale guardare ai moti di Reggio unicamente come ad uno scoppio di
ira popolare suscitato da meschini motivi di orgoglio paesano o da
gruppi interessati.
La componente del
campanile c’è ed è anche inquinata da elementi passionali, facinorosi;
ma non è preminente rispetto ad altri di natura economica e sociale. Al
fondo della collera ci sono anzitutto una debilitante povertà e un
senso amaro di frustrazione. Sia nel capoluogo, sia nella provincia è
in corso un processo di decadimento continuo. Di questa situazione
sarebbe parimenti ingiusto dare la colpa ai reggini.”
“La
rivolta di Reggio, perché di questo si tratta, non nasce solo da un
esasperato amore di campanile. C’è, nella tragedia di Reggio, la
protesta di una città che ha un reddito pro capite tra i più bassi
della penisola, la dolorosa illusione di un antico centro glorioso che
crede di trovare la sanatoria ai propri problemi di sviluppo economici
nell’evasione spagnolesca di una “capitale regionale”, tale da
competere col fasto dirimpettaio del siciliano palazzo dei Normanni.
Ci
sono eredità millenarie unite a miti recenti, le une e gli altri
alimentati con tranquilla incoscienza da gruppi locali volti ad una
gara spietata e cinica per il potere. Impossibile classificare la
rivolta di Reggio, come già quelle di Battipaglia ed Avola, sotto una
qualsiasi prospettiva politica. Fermenti di anarchismo atavico, tipici
delle classi diseredate protagonisti delle “jacqueries” di una volta,
si uniscono con un moto insondabile di negazione e di rivolta nella
piccola borghesia intellettuale e professionista del sud, umiliata in
tutti i suoi ideali, tenace nella fedeltà a certe tradizioni o a certi
fantasmi di grandezza.”
Si tratta di una rivolta a suo modo anomala, nella quale partecipano anche donne e bambini.
“A
difesa delle barricate erette di nuovo a S.Caterina e sul ponte di
S.Pietro, c’erano questa mattina anche donne e bambini. Le loro istanze
per un domani migliore devono essere accolte dal Governo che non può più continuare ad ignorare cosa sta accadendo da cinque giorni in questa città tanto tormentata.”
“Le
donne, violentando ogni tradizione, che non è certamente quaggiù una
tradizione patriarcale, hanno organizzato una chiassosa, pittoresca,
arroventata “uscita”…Non sono come le donne di Aristofane, scioperanti
pacifiste e di alcova: sono, viceversa, più guerrafondaie e piazzaiole
dei mariti. Tante Anita Garibaldi, tante Evita Peron, tante contessa
Maffei…Una distinta signora, moglie di un ingegnere, al volante di una
“Sprint”, con i capelli arruffati e gli occhi ardenti, spiegava oggi,
mentre si apprestava a ripartire rombante: “Ho mandato sulle barricate
la cameriera, figurarsi se non ci vado io!”.
Sono
scontri surreali, nei quali la violenza dei dimostranti spinge ad
incendiare fabbricati ed assaltare pubblici edifici, bloccare le vie di
comunicazione e i ripetitori tv, innalzare le barricate ma- allo stesso
tempo- abbandonarle per una tacita pausa nei combattimenti all’ora di
pranzo e della pennichella pomeridiana.
“Un
capitano dell’arma così raccontava stamani che durante i disordini,
mentre era impegnato in una scaramuccia a contatto con i rivoltosi, e
volavano le pietre e le bombe lacrimogene, gli è caduta la pistola. È
stato uno dei dimostranti a raccoglierla e restituirgliela, fuggendo
verso i compagni per riprendere la lotta. Ai reparti impiegati per
l’intera città ed in difficoltà per il rancio, gruppi di ragazze hanno
portato cestini di viveri e bottiglie di Coca Cola senza certo pensare
di tradire i fratelli impegnati sulle barricate. Una isospettabile
cavalleria ha distinto i rivoltosi anche nelle giornate più calde. Si
tenga conto che a Reggio, come in tutta la Calabria, esiste il maggior
numero di porto d’armi per fucile da caccia e pistole. Da queste armi
non è partito un colpo nemmeno quando l’odio è traboccato dopo la morte
del ferroviere.
Rarissimi sono stati i
saccheggi. Solo quando è andata in frantumi la vetrina di un negozio di
banane, molti ragazzi hanno fatto una scorpacciata degli esotici
frutti. Nei quartieri più miseri sono state divelte le tabelle della
segnaletica stradale, incendiati gli autobus, ma le macchinette per la
distribuzione delle sigarette hanno ancora tutti i vetri intatti e le
“nazionali esportazione” sono tutte al loro posto. Alla stazione lido
sono state date alle fiamme le strutture dello scalo ferroviario, ma
sono stati risparmiati i libri della rivendita. Nelle cabine
telefoniche stradali sono stati infranti i cristalli e strappati i
fili, ma gli apparecchi muti nessuno se li è portati via. Una rivolta
davvero singolare dunque, nella quale tutte le forme di scontento, per
qualsiasi ragione si sono sommate, senza che nessuna prevalesse ed
hanno giocato un loro ruolo, ognuna per proprio conto, in un amalgama
di solito difficile a realizzarsi.”
Ma la protesta assume anche toni stravaganti:
“Se
volete vincere la battaglia per Reggio capoluogo, diceva stamattina ai
dimostranti un anziano signore col cappello di paglia, dovete
rinunciare alla violenza e fare ricorso alla fantasia. I dimostranti
l’hanno ascoltato.”
La
popolazione si dirige verso un santuario della città che ospita un
antico quadro della Vergine, la “Madonna della Consolazione”e, per
tutta la giornata, lo trasporta in processione per le vie della città: “Questa è stata la giornata della Madonna rapita”; “Un cartello precedeva la processione senza preti. C’era scritto: Maria, ci sei rimasta solo tu!”
In
questa atmosfera di guerriglia urbana, un evento riscuote gli animi dei
dimostranti e riaccende le polemiche: il 22 luglio, nei pressi della
stazione di Gioia Tauro, deraglia la Freccia del Sud.
Iniziano
a rincorrersi le voci di un possibile attentato doloso al treno, in
relazione ai disordini di Reggio,ma tutti gli organi istituzionali, dal
questore Santillo al prefetto De Rossi, smentiscono decisamente e
archiviano il tutto come uno sciagurato incidente.
In
un clima di completo abbandono, in cui la città viene lasciata sola a
se stessa e non c’è un rappresentante del governo o uno degli uomini
politici di origine calabrese che fronteggi la popolazione, la scena è
tutta per i capipopolo e l’iniziativa dei singoli, da uno come
dall’altro fronte.
Uno dei nomi legati a futura
memoria ai moti di Reggio è quello di Francesco (Ciccio) Franco. Il
missino, che copiava da Mussolini alcune pose oratorie e aveva coniato
la parola d’ordine di “boiachimolla”, si era impossessato del comando
di uno dei più grandi moti di piazza del ‘900 meridionale. Fino alle
barricate, Franco avrebbe potuto essere considerato un qualsiasi peone
del partito di estrema destra. Sindacalista Cisnal dei ferrovieri,
consigliere comunale in continuo dissidio con la federazione locale,
pochi giorni prima dello scoppio della rivolta non era stato nemmeno
eletto alle prime elezioni regionali. Franco diventerà il capo della
folla che conquisterà con frasi ad effetto: parla di riscatto del Sud,
di destino offeso e di necessità a rivoltarsi. Riesce intercettare le
ansie e le aspettative tradite di una intera popolazione, spesso
sottovalutate dai partiti politici.
Un
altro personaggio che legherà il suo nome ai fatti di Reggio è Piero
Battaglia, sindaco Dc della città dal 1966, che insieme al suo partito
politico forma un comitato politico unitario che coordinerà le prime
fasi della rivolta. Non dotato dello steso carisma di Franco, il
sindaco Battaglia riesce comunque in un primo momento a coalizzare il
moto di piazza e le principali forze politiche, ad esclusione di Pci e
Psi, attraverso assemblee pubbliche, comizi, manifestazioni di piazza e
soprattutto con lo sciopero generale che immobilizza a più riprese la
città.
Trent’anni dopo in un’intervista ad un quotidiano locale, Battaglia dichiara:
“Lo
Stato è stato manforte della polizia, dei carri armati. I reparti
peggiori, quello di Padova soprattutto, sono stati mandati per punire
la città. Neanche Fanfani, al lido Cenide di Villa San Giovanni, ebbe
l’intuizione di quello che stava per accadere e disse che la Regione
riguardava Quaranta applicati, pochi uomini. Neanche lui ne capì
l’importanza.”
Un ulteriore elemento da evidenziare è la totale incapacità di comunicazione tra i partiti e la piazza.
Nel
corso della rivolta lo Stato viene a mancare sia nella sua dimensione
istituzionale che in quellapolitica. Per quanto riguarda il primo
aspetto, l’unico esponente visibile della Repubblica a Reggio è il
questore Emilio Santillo, che con grande padronanza di nervi riesce a
mantenere il controllo della situazione; è evidente però come la tenuta
delle istituzioni democratiche in una città non possa essere delegata
al singolo. Nessun rappresentante del Governo si reca a Reggio nei
lunghi mesi della sollevazione popolare, instillando nella piazza la
convinzione di non avere “protettori” a Roma della stessa importanza
delle altre due province.
La
prima “fase calda” della protesta si esaurisce tra la fine di luglio e
agosto. Inizia un periodo definito dai dimostranti stessi di “vigile
attesa”, linea che si definisce opportuna fino “alla prossima
riunione del Consiglio regionale, di modo che non venga pregiudicato,
attraverso intuibili camarille e basse manovre, il sacrosanto diritto
della nostra città al capoluogo”.
Il
secondo scoppio di violenza ha inizio nel settembre 1970. Questa volta
si scatena una vera e propria guerriglia urbana. L’apice della violenza
si raggiunge il 17 settembre con l’uccisione, apparentemente senza
motivo, di Angelo Campanella da parte della polizia. L’uomo, un autista
dell’azienda municipale di trasporti e padre di 7 figli, viene colpito
mentre di ritorno a casa nel popolare quartiere “Ferrovieri” si trova
casualmente coinvolto negli scontri sul ponte Calopinace.
Poco
dopo l’annuncio della morte di Campanella, viene arrestato per
istigazione a delinquere in base all’art. 414 Francesco Franco, leader
del Comitato d’azione. Contro di lui era già stato spiccato mandato di
cattura dal procuratore della Repubblica; stessa sorte di Franco
subisce l’ex comandane partigiano Alfredo Perna, accusato dello stesso
reato.
La notizia della morte di Campanella e degli arresti fa rapidamente il giro della città, eccitando gli animi.
“Per
le vie di Reggio avveniva il finimondo. I dimostranti si sono
abbandonati a devastazioni d’ogni genere distruggendo la segnaletica
stradale, incendiando masserizie e copertoni d’auto, saccheggiando
perfino alcuni negozi…Corso Garibaldi ha preso l’aspetto di un campo di
battaglia dove l’aria era irrespirabile per il fumo provocato dagli
incendi di stracci cosparsi di carburante e dai candelotti.”
La
ferrovia brucia in più punti, tutti i treni sono fermi. I dimostranti
svaligiano tre armerie, impossessandosi di centoventi fucili e pistole,
oltre ad un ingente quantitativo di munizioni.
In
città si spara ovunque. Cinquecento dimostranti circondano il palazzo
della Questura e costringono le forze dell’ordine a riparare dentro. Si
sentono colpi di fucili da caccia, raffiche di mitra, esplosioni di
bombe Balilla.
“Si è
trattato di un vero e proprio assedio, nel corso del quale, a più
riprese, ai colpi d’arma da fuoco sono seguiti lanci di grossi petardi
e bottiglie incendiarie. C’è stato anche un tentativo di sfondare il
portone che è stato respinto. Durante questi drammatici momenti il
brigadiere Curigliano è stato colto da un malore cardiaco: dalla
Questura è stata chiamata telefonicamente un’ambulanza che è giunta
però con molto ritardo, data la situazione. Il sottufficiale, quando ha
potuto essere soccorso e trasportato, era agonizzante ed è morto poco
dopo.”
La
mattina successiva, dall’uno e dall’altro fronte, si conteranno 2 morti
e 12 feriti; molti tra i dimostranti non hanno fatto ricorso alle cure
dei medici degli ospedali per non essere identificati.
Interviene anche il presidente Saragat che in un messaggio fa appello “a
tutti i cittadini di Reggio Calabria perché nella rinnovata coscienza
di ciò che la loro città rappresenta per tutti gli italiani ritrovino
la via della serenità e della concordia”.
Gli
scontri proseguono. La rabbia dei dimostranti si rivolge ora anche
contro i giornalisti, colpevoli secondo la popolazione di rappresentare
un’immagine distorta della rivolta. Alberto Cavallaro viene querelato
dopo un intervento sulla Rai-Tv, mentre alcuni – tra i quali l’inviato
di “Panorama” Lino Rizzi- vengono addirittura aggrediti fisicamente in
città.
Il 21 settembre scatta
l’operazione “città pulita”, preparata dalla Questura con vere e
proprie strategie militari. L’obiettivo è di liberare i due quartieri
assediati di Sbarre e S. Caterina.
In brevissimo
tempo, e senza alcun incidente, grazie all’impiego di mezzi cingolati
(M-113) e di autocarri sono rimosse quasi tutte le barricate. Gli
abitanti del rione si limitano a guardare.
A lavoro
ultimato si hanno 47 camion carichi di materiale oltre a 50 carcasse di
auto nel solo rione di S.Caterina. Dopo tre giorni di paralisi totale
riparte il primo treno. Abbattute le ostruzioni, agenti e carabinieri
presidiano le piazze, gli edifici pubblici, il porto, le stazioni
ferroviarie. Reparti della Celere e dei battaglioni meccanizzati dei
carabinieri presidiano le vie d’ingresso alla città.
“È
finita davvero, dunque? Sta di fatto che Reggio riprende a vivere…Una
città non può suicidarsi. Non c’è la normalità, si capisce. Non c’è la
calma degli animi, ma c’è il desiderio di trovare una via d’uscita.
Rimangono l’amarezza e una sorta di rabbia impotente. Componenti che
non bisogna sottovalutare. Proprio da qui potrebbe scaturire una nuova
esplosione che sarebbe la più pericolosa. Guai sei reggini avessero la
sensazione di essere stati sconfitti.
La
componente maggioritaria dello scoppio d’ira è la componente
economico-sociale, non c’è dubbio. Se il professionista è sceso in
piazza accanto al “Lazzaro” di periferia, se l’operaio s’è affiancato
agli studenti, non è accaduto per caso o per gioco. Teniamo poi
presente che le vere battaglie sono avvenute nei rioni popolari,
con partecipazione di giovani, ragazze, uomini, con l’aiuto di donne
che sono mamme, spose, talvolta nonne. Chi non l’ha vista questa
rivolta stenta a crederlo. Ecco perché la risposta ai reggini non può
essere se non politica. Il naturale interlocutore dell’opinione
pubblica devono essere Governo e Parlamento”
La
rivolta finisce, così, con una tregua imposta; lascia la città
stremata, in condizioni economiche disastrose: non si produce, non si
commercia, ogni attività è ferma, le saracinesche sono abbassate. Le
linee di comunicazione sono precarie e da ripristinare; i telefoni
funzionano poco e male. Strade, stazioni ed aeroporto sono parzialmente
inagibili.
8.2 Le interpretazioni
Le
letture politiche e le interpretazioni dei fatti di Reggio sono
molteplici e spesso contraddittorie. Di fronte ad un evento, come
quello della sollevazione popolare calabrese, che sfugge ad ogni
catalogazione per le sue caratteristiche peculiari e distintive, il
tentativo di comprensione risulta difficoltoso.
Se
inquadrati nel contesto politico generale del Paese, i fatti di Reggio
costituiscono una contraddizione improvvisa, ma non del tutto
imprevedibile. Su un piano più specificatamente regionale, la lotta di
campanile si lega e si confonde con una battaglia politico-personale di
asprezza inusitata. Giacomo Mancini è investito da una campagna
denigratoria che culmina, proprio durante i moti, nella campagna
scandalistica organizzata dal giornale fascista “Candido” e imperniata
sulle cosiddette “aste truccate” dell’Anas.
Le
ormai numerose ricostruzioni dei moti di Reggio hanno sottolineato
questi nessi col contesto nazionale e con gli avvenimenti locali, ma
hanno anche evidenziato abbondantemente che la rivolta è nata
all’interno dei partiti, e in particolare tra il notabilato locale
della Dc e del Psdi, il quale ha scatenato la lotta per “Reggio
capoluogo” per confermare sul piano burocratico -amministrativo un
predominio che sembrava vacillante. Nel 1970, dopo l’istituzione delle
regioni, quei notabili hanno da constatare, in forma di ulteriore
sanzione istituzionale, la propria marginalità rispetto ad una prassi
politica saldamente agganciata alle leve politiche dello Stato, che
solo i “cosentini” Mancini e Misasi hanno dimostrato di conoscere fino
in fondo.
Inoltre della rivolta reggina si fa poi
protagonista la piccola borghesia impiegatizia. Questa reagisce alla
precarietà economica e alla perdita di identità sociale e culturale,
dovuta alle trasformazioni dell’ultimo decennio, riscoprendosi capace
di un ruolo di mediazione politica e culturale tra le classi
subalterne, urbane o urbanizzate, e le classi dominanti locali. Ed è
questo uno dei dati più interessanti: il ceto medio impiegatizio che si
fa ceto dirigente della città in rivolta, in una situazione dilaniata
tra sottosviluppo ed emarginazione da una parte, neocapitalismo e
modernizzazione dall’altra.
Il segno politico della
mediazione tra questi elementi, che diventerà prevalente nella rivolta,
cioè quello fascista, è paradossalmente “difensivo”, nella misura in
cui si richiama, in un modo o nell’altro, ai valori “traditi” della
cultura locale. Non è un caso che i fascisti, raccogliendo il bisogno
popolare di avere un nemico facilmente riconoscibile e tangibile,
demonizzino in modo pesante e volgare l’immagine-simbolo di Mancini. Un
discorso analogo, anche se ovviamente ribaltato, si può fare per il
ruolo attribuito alla statua della Madonna, portata in processione per
le strade della città in rivolta. Si tratta in questo caso di un
tentativo di sacralizzazione della lotta, che rimanda alla cultura
delle classi contadine, ma dà anche la misura della sconfitta: in una
situazione di deprivazione e d’impotenza, l’estremo tentativo consiste
nell’affidare al rito propiziatorio la possibilità di immettersi in un
circuito di potere.
Come è stato anche osservato,
l’invocazione del santo protettore o della Madonna è una sorta di
trasposizione religiosa del meccanismo clientelare di raccomandazione.
I paradossi della situazione calabrese sono tutti simbolicamente
racchiusi in questo scarto, tra la tecnica spettacolare e
trionfalistica delle campagne elettorali manciniane, attente ai modi di
organizzazione del consenso di una società dell’informazione, e
l’estremo ricorso al sacro dei dimostranti reggini, che allude a una
maglia politica e clientelare locale non più in grado di reggere alla
complessità e ai ritmi crescenti delle strutture e dei rapporti
politici.
A sinistra si guarda alla rivolta con imbarazzo e non senza qualche miopia.
I
partiti ufficiali dimostrano una completa incapacità di analisi; nel
corso dei disordini prevarrà un senso di immobilismo, tanto da
provocare da parte della sinistra più estrema le accuse di avere
richiesto una maggiore repressione del moto popolare.
Gli anarchici dell’Internazionale situazionista scrivono:
“Il
18 ottobre i comunisti di Reggio ammettono soltanto di “avere perso il
treno”, mentre in realtà hanno perso anche i ferrovieri”.
Un
sostanziale abbaglio viene preso però da queste forze della sinistra
più estrema e da alcune frange del movimento anarchico, che
semplificando i caratteri della rivolta scambiano i fatti di Reggio per
la rivoluzione.
“Presto verrà che le bandiere
rosse saranno issate dal popolo di Reggio sui quartieri in lotta. E
allora cosa diranno i filistei che hanno volutamente confuso il
terrorismo fascista con la ribellione di un popolo sfruttato? Dovranno
nascondersi davanti ai lavoratori che li hanno ascoltati non sapendo la
vera situazione che si è creata a Reggio Calabria!”
“Ormai
qualsiasi pretesto è buono in Italia per iniziare una rivolta sulla via
della rivoluzione sociale: a Caserta una partita di calcio, a Reggio
Calabria un’assemblea regionale. Non è lo Stato che sceglie di
“abdicare”, come dice la stampa di destra: è al contrario il
proletariato che con le sue lotte rivoluzionarie lo costringe sempre
più decisamente ad abdicare.
Un
tentativo di analisi più complessa è realizzata dal Gruppo Anarchico
Kronstadt di Milano;in un ciclostilato del 29 ottobre 1970, dopo aver
identificato nelle componenti operanti nella rivolta quella borghese
che afferma i propri interessi mafiosi, e quella proletaria che esprime
l’insofferenza per la propria situazione, scrive:
“Assurdo
è però vedere in questa lotta l’espressione più alta dello scontro di
classe in Italia solo per la sua violenza come sembrano fare i compagni
di Lotta Continua che sono arrivati a definire Reggio “capitale del
proletariato”.
La violenza della lotta non
basta a qualificarla come rivoluzionaria ma unico elemento di giudizio
valido è il rapporto in cui si pone per forme e contenuti rispetto alla
crescita della lotta di classe e quindi la sua capacità di
generalizzarsi e di essere fatta propria da tutta la classe.”
8.3 L’intervento degli anarchici nella rivolta di Reggio
Il
gruppo anarchico partecipa attivamente alla rivolta della città; ma lo
fa con un ruolo diverso. Per gli anarchici, il capoluogo non è un vero
problema; i problemirealisono la disoccupazione, la miseria, la mafia,
la corruzione della classe dirigente. Si adoperano a modo loro per
cercare- soprattutto- il dialogo con la popolazione, per tentare di
interpretare il disagio con gli strumenti di comprensione che hanno in
più rispetto ai “compagni” anarchici lontani, che poco conoscono la
realtà depressa della città.
Soprattutto per quelli
tra di loro, come Casile e Scordo, che provengono dai quartieri più
coinvolti nei disordini, i vecchi rioni ancora fatiscenti abitati dai
pescatori e dai ferrovieri,e vivono le condizioni di vita disperate che
spingono i dimostranti sulle barricate, diventa fondamentale immettersi
nella rivolta con istanze diverse e nuove.
Il
gruppo degli anarchici reggini elabora in un primo tempo una serie di
proposte concrete da portare sulle barricate: il lavoro giovanile, le
agevolazioni per gli immigrati di ritorno in Calabria, l’allontanamento
della Polizia dalla città, lo scioglimento delle istituzioni repressive.
Anche
loro probabilmente, in un primo tempo, scambiano l’insurrezione per
quel moto di piazza tanto atteso come gli anarchici situazionisti o i
marxisti-leninisti, o comunque tentano di indirizzare la rabbia della
popolazione, ma il tentativo fallisce. Gli anarchici si scontrano
contro una rivolta che non è più ormai- o forse non è mai stata- solo
un moto popolare, ma che contiene una serie di elementi politici non
facilmente individuabili. Sulle barricate sono arrivati in breve tempo
gli agitatori di destra, che si sono mescolati ai dimostranti. La
situazione è sfuggita di mano ai partiti eagli uomini politici, per
cadere sotto il controllo dei capipopolo.
Quando
Adriano Sofri, allora leader di Lotta Continua, giunge a Reggio per
convincere alcuni gruppi extraparlamentari e gli anarchici ad inserirsi
nella rivolta per poi pilotarla a sinistra, Casile, Scordo e il gruppo
anarchico rifiutano.
In agosto, in collaborazione
con la FAI, arriva da Roma una sofisticata macchina fotografica con la
quale gli anarchici iniziano un’inchiesta di controinformazione.
Casile, Scordo e Aricò documentano, attraverso quelle immagini, le
presenze neofasciste nella rivolta. Avanguardia Nazionale di Delle
Chiaie, Ordine Nuovo di Rauti e il fronte nazionale di Junio Valerio
Borghese avevano avuto, con il MSI, un peso determinante tramite gli
attivisti locali e quelli fatti arrivare appositamente da altre parti
d’Italia. Un rullino di foto scattate dagli anarchici durante i
disordini sparisce; Casile e Scordo vengono minacciati.
Il
clima è sempre più teso: ben presto accanto alle barricate inizia
l’offensiva del tritolo e degli attentati. Su questa nuova pista
iniziano a muoversi le indagini dei ragazzi: per loro i legami tra il
deragliamento del treno a Gioia Tauro, che non convince né per la
dinamica né per la fretta con il quale è stato archiviato, e la
presenza di elementi di estrema destra in città sono sempre più
evidenti. Iniziano, quindi, una vera e propria inchiesta di
controinformazione della quale nulla ci è rimasto se non la
testimonianza da essi fornita ad alcuni amici e familiari.
Un
altro episodio che vede al centro i ragazzi è la manifestazione che
questi organizzano in collaborazione con il pastore battista di Reggio,
Francesco Casanova, e con il pastore valdese Lupis di Messina, per
interporsi tra i dimostranti e la polizia.
La protesta si svolge sul Corso principale della città, teatro nei giorni più caldi della rivolta di assalti e sbarramenti.
Come ricorda Tonino Perna, cugino di Aricò:
Ho
partecipato il 7 settembre del ’70, assieme alla Chiesa evangelica di
Reggio, all’unica manifestazione pacifista di quel periodo, in cui
c’era scritto “Via la polizia da Reggio” e “Basta con la violenza”.
Sono arrivati i fascisti, e ci hanno rotto i cartelli, e c’è stata
questa scena bellissima che Angelo Casile veniva preso a schiaffi da un
noto fascista locale e diceva bravo, bravo, prendimi a schiaffi, così
fai il servizio dei padroni che ci vogliono dividere.
Santo
Ielo, leader della CGIL reggina, viene intervistato qualche mese dopo
la morte dei ragazzi per spiegare i moti da sinistra, e riporta le
parole scritte da Angelo Casile in un volantino:
“Padroni bastardi, del capoluogo non sappiamo che farcene!
Il
capoluogo va bene per i burocrati, gli speculatori, i parassiti, i
padroni e i politicanti più grossi; va bene per le manovre dei
caporioni locali, per il sindaco Battaglia e per i caporioni falliti.
Va
bene per il tentativo di questi “uomini importanti” di accrescere il
loro potere locale, la loro area di sfruttamento, facendoci sfogare
anni di malcontento con la falsa lotta per il capoluogo, dopo che hanno
mandato i nostri figli e i nostri fratelli a lavorare all’estero e
continuano a sfruttarci nella stessa Reggio
I
cosiddetti “datori di lavoro”, che in realtà sono luridi padroni, sono
i nostri nemici, quegli stessi che ci mandano allo sbaraglio per il
capoluogo, per la Madonna o per la squadra di calcio.
Il capoluogo non ci serve!Lottiamo per farla finita con l’emigrazione, con la disoccupazione, con la fame!
Nicola Ad elfi, «La Stampa», 16 luglio 1970
Giovanni Spadolini, «Il Corriere della Sera», 16 luglio 1970
«La Gazzetta del Sud», 18 luglio 1970
Francobaldo Chiocci, «Il Tempo», 21 luglio 1970
Sandro Osmani,«Il Messaggero», 19 luglio 1970
Gaetano Tumiani, «La Stampa», 31 luglio 1970
Alfonso Madeo, «Il Corriere della Sera», 1 agosto 1970
Franco Pierini, «Il Giorno», 1 agosto 1970
Cfr. capitolo successivo sulla strage del treno
“Il Quotidiano”, Dossier “Reggio Calabria 30 anni dopo”
Comunicato diffuso dal Comitato Unitario
Angelo Frignani, “Il Tempo”, 18 settembre 1970
Bruno Tucci, “Il Messaggero”, 18 settembre 1970
Egidio Sterpa, “Il Corriere della Sera”, 22 settembre 1970
In realtà la conclusione della rivolta di Reggio Calabria è da
stabilire nel febbraio 1971, quando il presidente del consiglio Emilio
Colombo annuncia che a Reggio Calabria sorgerà il V centro siderurgico
nazionale con un investimento di 3 mila miliardi di lire e oltre 10
mila posti di lavoro. La città e i reggini accettano la proposta e
mettono fine alle violenze.
Il racconto in queste
pagine si limita solo ai primi mesi della rivolta per due motivi: da un
lato furono i più significativi, dall’altro perché maggiormente
attinenti alla vicenda principale dei cinque anarchici.
Vittorio Cappelli, Politica e politici,in “Storia d’Italia – La Calabria”, Einaudi 1985
“Ben
grave è la posizione assunta dal Pci, che accusa il popolo di seguire i
fascisti, e che chiede all’infame governo Colombo una maggiore azione
repressiva. Così il governo colpisce i lavoratori in lotta mentre nel
resto d’Italia parecchi operai si trovano disorientati e non agiscono
in difesa del popolo di Reggio Calabria ( Manifesto stampato a Milano il 3 febbraio 1971 dall’Unione dei marxisti- leninisti)
Manifesto dell’Unione dei marxisti- leninisti, Milano 1971
Internazionale Situazionista, Gli operai d’Italia e la rivolta di Reggio Calabria
Lettera della compagna di Alessandro(carc)
Lettera della compagna di Alessandro(carc)
arrestato la sera dell’11 ottobre a pistoia , all’assemblea del coordinamento antirazzista.
01.12.09
Oggi ho visto Ale
l’ho trovato bene
anzi molto bene sia fisicamente che di spirito e lucidissimo
aveva però bisogno
di sapere cosa è successo fuori dal 21 novembre a oggi perchè dai giornali non
aveva avuto più notizie
.ha specificato che sapeva che non lo avevamo
abbandonato però gli mancava il riscontro fuori anche della protesta a Pistoia
ad esempio.
Mi ha raccontato appunto della
protesta a Pistoia
oltre a quello che ha riferito lui nella sua lettera ha
detto che alcuni detenuti hanno dato fuoco ai giornali hanno praticamente
sverniciato i portoni blindati e li hanno danneggiati a tal punto che per
chiuderli li dovevano sollevare da terra
hanno smontato tutti gli scarichi delle
docce e rotto l’impossibile
è stata veramente forte come protesta e dentro dal
rumore che facevano non ci si stava.
Ha detto che le guardie non erano
assolutamente in grado di gestire la cosa ed erano molto impaurite dalla
situazione. Hanno identificato lui come il fomentatore del tutto anche se in
realta cosi non era (almeno allinizio), ha detto che un detenuto aveva dato il
via alla proposta proponendo di non rientrare dall’ora d’aria e Ale si era
opposto perchè lui di proteste ne aveva fatte tante ma mai una senza sapere il
motivo per cui protestava, cosi è uscita la proposta da parte di Ale di fare la
lettera al direttore e da li è cominciata la protesta che è andata a crescere
giorno dopo giorno
fino a che non hanno deciso di spostarlo lunedì a Prato.
Però per quello che mi risulta la
protesta anche se in maniera più blanda ècontinuata anche dopo
lunedì.
Mi ha raccontato che Prato è
veramente un carcere terribile c’è una confusione totale
.
è sudicissimo e il cibo è improponibile,
ha detto che l’ultima sera che è stato li gli hanno portato un
pezzo di carne secca ,che non si capiva di quanti avesse.
Le docce e i bagni erano sporchissimi, però aveva ritrovato alcuni carcerati che
erano nella sua cella di Pistoia.
Lo spostamento a Parma invece è
stato una sorpresa anche per lui
è salito sul blindato dopo il processo del
27 a
Massa pensando di essere portato a Prato e quando è sceso dal blindato si è
trovato in questo carcere enorme pulitissimo e con tutte le guardie gentilissime
e ha capito dopo che si trattava di Parma.
Appena è arrivato in cella ha
trovato già li tutta la sua roba. Si trova al primo piano (il piano che ospita
gli extracomunitari) però in una cella che sembra essere di transito ,nel senso
che c’è un corridoio lungo dove c’è un braccio a destra e uno a sinistra con i
detenuti, nel centro c’è un pezzo di corridoio vuoto dove su un lato c’è la
guardiola delle guardie e di fronte c’èl a sua cella ,che divide con un ragazzo
di 18 anni egiziano (
).
Va molto d’accordo sia con lui sia
con gli altri ragazzi con cui fa socialità Questi ragazzi sono ai piani
superiori ossia gli italiani stanno dal secondo piano in su in condizioni un pò
migliori delle sue
.(..).
Ha una mezz’ora d’aria in più
rispetto a Pistoia. Al momento non puòscrivere perchè non ha la penna
però ha
detto appena riesce a trovarne una ricomincerà a scrivere. Ha provato a
fregarne una a una guardia che gli ha fatto firmare un foglio ma la guardia se
ne è accorto e gli ha detto di non fare il furbo e
ridargliela
.
Dice le guardie hanno un
atteggiamento pesissimo
a differenza di quelle che lo hanno accolto quando è
arrivato quelle nel reparto hanno un atteggiamento duro ,ma non lo minacciano o
cose simili,però la disciplina e le regole sono molto più rigide che a
Pistoia
,non danno mai confidenza.
Ad oggi nonostante ieri l’avvocato
gli abbia lasciato i soldi e lui avesse ancora dei soldi sul libretto di Pistoia
,non gliel’ hanno aperto a Parma per cui lui non ha disponibiltà economica
.ha
chiesto di fare un telegramma dopo essersi trovato a Parma per rassicurare noi
sulle sue condizioni e gli è stato detto che non c’erano i moduli
,ogni
richiesta che fa ha dei tempi lunghissimi
, penso usino queste lungaggini per
complicargli la vita. Era un pò preoccupato perchè non gli arrivano
lettere ma gli ho spiegato che deve
avere un pò di pazienza perchè molte persone che prima gli scrivevano non
hanno il nuovo indirizzo ,
ma che ricominceranno ad
arrivare.
(
) Ha detto di aver scritto una
lettera al centro e una a me
però quella che ha mandato al centro non è stata
spedita e gli è stato consegnato un documento dove c’è scritto che non veniva
spedita perchè c’erano forti sospetti, visto il destinatario, che quella
comunicazione potesse essere pericolosa per l’istituto penitenziario.
La lettera conteneva l’articolo per
l’ASP e non gli è stata restituita. Comunque non ha censura ufficiale sulla
posta. (..)
Ha detto che è stato per più di un ora dal direttore del carcere
il quale gli ha fatto una specie di interrogatorio sul CARC ma lui ovviamente
non ha risposto a nulla.
Dice che li girano psicofarmaci a
bestissima e se li chiedi te li danno con una facilità esagerata. Lui
ovviamente non ne fa uso
.e non ha intenzione di farne ,non ne ha di certo
bisogno
mantiene sempre la sua calma e tranquillità naturali.
(..) Gli ho raccontato di tutte le
inziative fatte dal 21
a oggi e di quelle che ci sono in programma compreso il
presidio di sabato prossimo a Parma. Mi ha detto che aveva immaginato che sabato
scorso ci fosse stato un presidio al carcere (quello indetto e non fatto) perchè
nel pomeriggio aveva sentito le guardie dire tra loro che per quella sera erano
tutti consegnati a stare in carcere di guardia.
Mi ha chiesto del mio lavoro e della
manifestazione di Colle gli ho raccontato tutto compreso del presidio di
domenica a Colle per cui gli ho dovuto dire anche delle minacce subite sabato..
a
(..) Quando ha saputo che Juri poteva
vedere i suoi genitori e che il processo è stato fissato per il
20 ha
detto subito che state lavorando benissimo fuori e si vede il risultato.
Purtroppo ancora non sapevo che Jury può tornare al lavoro
per cui glielo
scriverò.
Ha detto di salutare tutti tutti
in
realtà lo dice sempre anche nelle sue lettere sono io che a volte mi scordo di
dirvelo.
(..) entrare a Parma non è proprio
come entrare a Pistoia anche per i colloqui
,io sono entrata alle 8.45 e sono
uscita alle 11.20
e con Ale ci sono stata solo un ora
.il resto del tempo tutto
perquisizioni e controlli
.
.
Grecia – Comunicato dal politecnico occupato di Atene del 5/12/09
ATENE: COMUNICATO DAL POLITECNICO OCCUPATO, 05/12/2009 23H30
Un anno dopo l’assassinio di stato di Alexandros Grigoropoulos
l’esercito di regime cerca di occupare la citta`. Gli assassini armati
hanno prima invaso lo squat autogestito Resalto e poi il municipio del
Pireo, che era occupato da compagni in protesta contro l’irruzione
degli sbirri nello squat.
Questa sera la sbirraglia ha messo in stato d’assedio gli spazi di
lotta politica e sociale e accerchiato il quartiere di Exarchia e il
politecnico, mettendo parecchia gente in stato di fermo o di arresto. I
media, porta parola di regime, riproducono il clima di terrore creato
dalla propaganda di stato.
Un anno dopo la rivolta sociale di dicembre, il sistema
dell’oppressione e dello sfruttamento vuole riguadagnare terreno
cercando di instaurare uno stato d’urgenza per addomesticare la rabbia
popolare e calare sulla societa` un silenzio di morte.
Sapendo che la citta` e` sotto assedio, noi occupiamo il policlinico
e invitiamo tutti quelli che resistono a continuare la lotta con ogni
mezzo.
Siamo determinati a mantenere questo spazio occupato e dichiaramo la
nostra solidarieta` con tutti quelli che subiscono la repressione di
stato.
ESIGIAMO LA LIBERAZIONE IMMEDIATA DI TUTTI I COMPAGNI FERMATI E ARRESTATI.
SCENDIAMO TUTTI IN STRADA DOMANI 6/12/2009 A PROPYLEA 13H30.
NON SI DIMENTICA.
NON SI PERDONA.
TUTTO CONTINUA !
Germania – Attaccata la polizia a Berlino e Amburgo [info e rivendicazione]
La notte del 4 dicembre 2009 si sono verificati diversi attacchi sia
a Berlino che ad Amburgo. Ad esser colpita è stata soprattutto la
polizia tedesca: a Berlino azione contro il ramo della polizia
criminale – BKA, con molotov, pietre e bombe di vernice lanciate contro
il commissariato di di Treptow. Attaccati anche gli uffici della CDU e
della SPD.
Ad Amburgo è stata attaccata una stazione di polizia da
parte di individui col volto coperto, alle fiamme anche due auto della
polizia. Alle fiamme anche due uffici del dazio nel quartiere
Hammerbrook.
fonte: directactionde.blogspot.com
"Il 6 dicembre di un anno fa, Alexis è stato colpito a morte ad
Atene. Per commemorare lui e le successive rivolte, il 4 dicembre 2009
abbiamo attaccato la centrale della polizia (BKA – Bundeskriminalamt) a
Treptow – Berlino, con bottiglie molotov, pietre e vernice. La BKA è un
fattore chiave nella guida della collaborazione della sicurezza
europea, con l’obiettivo di distruggere le lotte sociali e responsabile
della condanna contro Axel, Florian e Oliver come presunti membri del
gruppo militante (mg).
Nostra solidarietà a tutti coloro che
iniziano ad attaccare il dominio del potere e del capitale che
riversano la loro rabbia per le strade e combattono…
Citiamo solo alcui prigionieri:
– Tobias, Rigo e Yunus, nel centro di detenzione di Moabit Hakenfelde e
–
Alfredo, Christos, Ilias, Giannis e presunti membri del gruppo
militante "La Cospirazione delle Cellule di Fuoco" detenuti in Grecia.
Libertà per tutti.
L’azione è anche una risposta alla continua
repressione e della liquidazione dei Brunnenstr. 183 per capire – si
spingerà il prezzo ulteriormente in altezza.
Gruppo Autonomo Alexandros Grigoropoulos"