Esistono nella storia dell’Arte, come del resto nella storia umana tout court, personaggi che nel corso degli anni subiscono, ovviamente post mortem, un’edulcorazione della propria figura, mondata in maniera artificiosa da quegli elementi di disagio, non allineati, che in vita li avevano portati a scontri più o meno violenti con l’intellighenzia ufficiale, le convenzioni sociali ed i gruppi di potere (in essere o in potenza) del periodo nel quale la loro vicenda umana si è dipanata.
La “normalizzazione” operata su questi personaggi ufficialmente è servita a “restituire alla collettività” l’opera del grande artista o personaggio “finalmente riconciliato” ed elevato ad esempio e simbolo del genio umano.
In realtà questa operazione di spoliazione ed impoverimento di queste figure, spesso precorritrici e cassandre di avvenimenti contemporanei, non è servita ad altro che a depotenziare il loro portato Rivoluzionario (nell’accezione più ampia del termine) o a cristallizzare in forma iconica, quindi semplificando e banalizzando elementi “non riconducibili”.
La voracità dei miseri ha spolpato la carcassa esanime di grandi personaggi per vestirli –ora che non possono più opporsi- dei panni che preferiscono trasformandoli in figurine buone per tutte le stagioni.
Di esempi ne sono piene le pattumiere politiche, artistiche e sociali, basti citare un autore come Albert Camus, la cui figura è stata per anni esemplificata nel ruolo di scrittore/autore teatrale con sfumature sociali, passando sotto silenzio o relegando a ruoli marginali i suoi impegni come pubblicista, che in vita lo scagliarono in un isolamento dovuto alle sue posizioni impopolari sia all’interno della sfera politico/sociale (le sue invettive contro il colonialismo in Africa e per l’indipendenza dell’Algeria) istituzionale, che in una certa sinistra transalpina filo-russa (le sue feroci polemiche contro l’imperialismo sovietico che portarono fra l’altro alla rottura con l’amico ed intellettuale “organico” Sartre). Eppure eliminando o sottacendo la sua dimensione di impegno politico e sociale, mal si comprendono –a mio vedere- opere fondamentali come “Lo straniero”, “La peste” o ancor più “L’uomo in rivolta”, che senza questa prospettiva mancano del retroterra ideologico sul quale innestarsi e svilupparsi.
Sorte simile è toccata al grande romanziere americano Samuel L. Clemens, più noto con lo pseudonimo di Mark Twain, celebre come scrittore di romanzi per “ragazzi” come “Tom Sawyer” o “Le avventure di Huccleberry Finn” eppure Twain è stato anche altro, una sagace osservatore della propria contemporaneità affrontata con una prosa mai banale, asciutta e irriverente, a tratti comica e sarcastica ma (quasi) mai livorosa, sempre ricca di spunti.
Dagli articoli di giornale al racconto breve, dal paradosso alla favola.
Ateo ed anticlericale convinto, coscienza scomoda dell’America bigotta e puritana, ipocrita ed imperialista, irriverente libertario nonché antirazzista, caratteristiche queste che soprattutto nell’ultima parte della sua esistenza gli provocarono non pochi grattacapi ed attirarono su di lui sguardi non proprio benevoli da parte di varie chiese, personaggi pubblici, colleghi, ecc…
Eppure questo suo portato si può individuare anche nei suoi lavori più noti. La voglia e l’amor di Libertà di Huck Finn, la figura del suo amico, il nero Jim che si lega ai temi della schiavitù e del razzismo sono alcuni degli ambiti cari all’autore che permeano l’opera twainiana e che la rendono per questo ricca di testi leggibili su vari piani e quindi fruibili da individui di tutte le età/sensibilità.
Un autore complesso quindi, con una gran capacità di non perdere mai la sua vena di sarcasmo comicheggiante, anche trattando temi scabrosi come le ipocrisie palesi contenute nelle religioni con il loro portato di credulità, furbizia che gioca sull’ignoranza, utilizzata in ultima sintesi per mantenere i più in una condizione di minorità forzata, indotta e coltivata, temi che quindi fanno il paio con la sua critica al democratismo acritico (come se bastasse un termine a sancire dignità ed uguaglianza) e dello stato.
Articoli come “Alla persona che vive nelle tenebre”, critica ferocissima e senza mezze misure dell’ “esportazione del vangelo” , dito ossuto dietro al quale si nascondono ben altri interessi che non la salvezza forzata delle anime dei popoli africani “infedeli” è un ottimo esempio (consigliato) per comprendere meglio il Twain “sconosciuto” e un pezzo di tragica attualità se solo si sostituisce alla parola vangelo quella di democrazia, un termine rassicurante e condiviso da tutte le persone “per bene”, utilizzato come specchietto per le allodole al fine di occultare i reali interessi imperialisti.
Twain era un intellettuale tanto scomodo quando per noi attuale, che dovrebbe insegnarci un metodo inedito per attaccare il potere e che dovrebbe farci ricordare che dietro ogni icona c’è spesso una dimensione d’impegno civile sul quale si innesta (spesso) la sua opera e senza la quale non avremmo potuto godere del frutto di pagine ed inchiostro.
Evjenj Vasil’ev Bazarov