Girando per Pistoia (parlo della città di Giano ma so che la situazione che qui stiamo vivendo è la medesima di moltissime città dell’italico stivale) è impossibile non notare come, da qualche anno a questa parte, lo spazio urbano stia subendo una profonda trasformazione della quale si possono ravvisare precedenti della medesima portata solo nei tempi lontanissimi della fioritura economica della città in epoca medievale o nel periodo della ricostruzione post seconda guerra mondiale.
Ci sono però da notare alcune differenze fondamentali tra questi due momenti, pur diversi fra loro, e la fase storica che ci stiamo trovando a vivere; i due momenti che precedono quello attuale furono caratterizzati dalla necessità di espansione fisica della città a causa di due momenti diversi di inurbazione (a scopo difensivo nel medioevo, a scopo economico quello postconflitto) accomunati entrambi da un’assenza di progettualità sociale atta a vincolare e caratterizzare la vita degli inurbati; ad accomunare questi due momenti storici, pur molto differenti fra loro, è la progettazione urbanistica legata solo alla possibilità di fruizione degli spazi per quanto riguarda la loro abitabilità.
Un progetto di desocializzazione
Se è vero che nel dopoguerra la necessità di manodopera industriale ha creato un’inurbazione “forzata”, che ha costretto molti ad abbandonare le campagne per tentare la via più sicura (almeno per quanto riguarda la cadenza fissa dello stipendio) del lavoro in fabbrica, è altresì reale il fatto che la città sia stata utilizzata soltanto come contenitore di corpi.
A distanza di sessanta anni è cominciata (in realtà sono ormai molti anni che il fenomeno si manifesta) la seconda fase della rivoluzione urbanistico/capitalista, caratterizzata –tra le tante cose- dall’utilizzo, da parte del potere, degli spazi abitativi e di socialità come strumenti di controllo/costruzione sociali.
Se osserviamo infatti i nuovi complessi abitativi che stanno sorgendo in città, noteremo subito come nella maggior parte di essi non siano previsti spazi di condivisione e socialità; non esistono infatti giardini comuni, o i “veroni”(1) dei condomini che i nostri nonni e bisnonni hanno abitato.
Lo spazio comune si riduce a corridoio di passaggio, portone, in qualche caso ballatoio…tutti spazi in cui il sostare, e quindi il produrre socialità risulta pressoché impossibile.
Se quindi gli spazi interni ed immediatamente esterni degli alveari per uomini che stiamo osservando tradiscono la volontà dei progettisti e dei costruttori di creare solo spazi di separazione e non spazi sociali, anche le facciate stesse precedono quello che troveremo all’interno: infatti laddove sono previste terrazze (più o meno grandi), le stesse sono separate le une dalle altre da pannellature o mura, eliminando dunque le vecchie terrazze formate solo dal basamento e dal parapetto, in cui i vicini potevano scambiarsi impressioni ed idee. In certi altri casi poi, gli appartamenti terrazzati sono costruiti in maniera alternata, in quel ritmo pieno-vuoto che impedisce il contatto diretto tra gli individui. Tutto ciò viene motivato con la richiesta di privacy sempre più pressante delle persone, in realtà tutto ciò è funzionale alla riproposizione delle dinamiche di “atomizzazione” sociale che abbiamo già cominciato a notare.
La decostruzione di spazi sociali e la conseguente rarefazione dei contatti fra gli individui creano così l’humus necessario al potere per poter insinuare i propri tentacoli bene addentro le relazioni sociali che, ridotte a testimonianza, e non a reale interazione/confronto/condivisione, risultano essere particolarmente deboli e manipolabili; quando la “realtà” e fruita solo tramite la mediazione degli apparati di potere –siano essi intesi come istituzioni, mass media o quant’altro- e non sono previsti altri veicoli di conoscenza/giudizio che quelli imposti da terzi, allora la creazione del “diverso” (immigrato, antagonista sociale, disoccupato…) come “nemico” pericoloso sia per l’incolumità individuale che per quella sociale, diventa esercizio alquanto semplice e funzionale sia all’autopoiesi del potere stesso che al controllo delle istanze sociali capaci di innescare potenziali criticità.
Con l’eliminazione dello spazio condiviso e con l’atomizzazione delle persone si creano così i presupposti per una gestione eterodiretta dell’esistente, in cui ciò che ha risalto ed importanza comune, viene studiato a tavolino da chi detiene le redini del potere, che può così ignorare, emarginare, depotenziare, distorcere, strumentalizzare, criminalizzare tutte quelle realtà portatrici di un’idea di società diversa da quella esistente.
Dividendo di fatto gli individui si limita così anche la loro capacità progettuale, la loro capacità non tanto di poter concepire un divenire diverso, ma di poterlo ritenere una strada realmente percorribile; in altre parole si percepisce l’inadeguatezza dell’esistente, incapace –perché strutturato da altri per tutt’altro- di rispondere efficacemente alle necessità della collettività, ma non si crede possibile la fattibilità del cambiamento, vivendo come ineluttabile lo stato delle cose e impedendo di fatto il raggiungimento di una qualsiasi criticità che permetta la rottura dei questo presente il libertario in favore di un futuro liberante e liberato.
Probabilmente non in tutti i casi in cui l’architettura sia funzionale agli scopi che fin ora abbiamo analizzato la realizzazione di fatto del progetto di controllo va di pari passo con la reale conoscenza/coscienza di queste dinamiche da parte del progettista, questo perché colui che sarà demandato a progettare “l’abitabilità” degli spazi ha vissuto per anni, ed è stato formato all’interno del cosmos universitario strutturato in maniera tale da creare non solo “professionisti” delle varie branche dello scibile umano, ma anche ingranaggi strutturabili nelle dinamiche di gerarchizzazione e separazione dei saperi, riproducendo quella piramide dei rapporti interindividuali funzionali alla perpetrazione del potere tout court.
L’influenza dello spazio circostante sulla formazione degli individui non è niente di nuovo, ma credo sia necessario rimarcarne la criticità, e focalizzare parte della nostra attenzione in maniera decisa su questa tematica. E’ necessario creare spazi e unità “liberati” ed includenti in uno spazio che si fa sempre più escludente.
Se le possibilità delle persone di rapportarsi vengono rese più difficili, di fatto negandole, si rendono questi ultimi più vulnerabili e dipendenti in misura sempre maggiore, man mano che il tempo passa, dalle forme del potere organizzato, rendendo molto difficile la formazione di sacche di contropotere sufficientemente forti per mettere in difficoltà e far emergere le contraddizioni di chi mantiene salde le mani sulle leve del comando, poiché una forma di esistente alternativo al dominio, per essere veramente “altro”, necessita di un grado di partecipazione e di complicità elevati.
Costruire/ricostruire spazi liberati
In quest’orizzonte è necessario cominciare a ricostruire spazi di socialità, untilizzando forme nuove ed impreviste, che in certi casi rompano lo schema classico –tanto per fare un esempio- del solo centro sociale che, pur essendo un’ottima forma di ambito di condivisione, alcune volte rischia -a causa delle attenzioni delle forze repressive, degli oneri di gestione ecc…- di diventare sì uno spazio aperto, ma verso l’interno, con scarsa propositività verso l’esterno e quindi scarsa presa sul tessuto sociale cittadino, lasciando ampio margine ai creatori di consenso per criminalizzare quel tipo di esperienza.
Intendiamoci, non sto dicendo di ritenere superata o peggio, dannosa l’esperienza dei centri sociali, tutt’altro, quello che voglio dire è che alla luce dei fatti e necessario affiancare all’opera di aggregazione e socializzazione (di esperienze, di saperi) effettuata all’interno dello spazio fisico dei centri, dei momenti che portino le esperienze al di fuori dei circuiti cui sono legate convenzionalmente, che si tratti di TAZ (occupazioni temporanee), in tutte le forme nelle quali si possano concepire, o riappropriazioni di spazi cittadini aperti, che ricontestualizzino e restituiscano ai luoghi la loro primitiva funzione di aggregazione/scambio, l’importante è cercare un collegamento diretto col tessuto cittadino; un esempio: c’è un progetto che a Pistoia portiamo avanti da qualche anno (da primavera in poi) ovvero l’organizzazione, il Sabato pomeriggio, di merende sociali autogestite nella piazzetta del mercato della frutta, dove oltre al momento conviviale si affianca quello informativo/propagandistico (toccando temi come nocività ambientali e sociali, arte…) sviluppato cercando di utilizzare codici di trasmissione dei contenuti che non si limitino solo a quelli classici del volantino o dello slogan; si tratti di teatro di strada, giocoleria o quant’altro poco importa, l’importante è riuscire a trovare il modo di comunicare i concetti a noi cari, tenendo ben presente che la società in cui ci troviamo a vivere impone veicoli comunicativi e modalità di comunicazione molto differenti da quelli con cui si sono confrontati i compagni venuti prima di noi; parafrasando Malatesta non si può ignorare la realtà, ma se questa è cattiva bisogna combatterla, con gli stessi mezzi che essa ci offre; così facendo si affrontano direttamente le calunnie del potere che tende sempre a criminalizzare e mistificare tutti gli ambiti che non rientrino nel suo orizzonte preconfezionato, dimostrando che i messaggi di cui siamo portatori propongono tutt’altro rispetto allo stato delle cose attuale, e soprattutto così facendo si dimostra che i proponenti…hanno due braccia e due gambe…proprio come il vicino di casa…
(1) Grandi verande comuni situate al vertice dei condomini utilizzate per l’asciugatura della biancheria.