Aggiornamenti Bologna – Corteo antifascista, arrestati 3 compagni

da emiliaromagna.indymedia.org
Alle 19 di sabato un nutrito gruppo di antifascisti si è trovato in via
Riva Reno nei pressi della sede di Forza Nuova per contrastare
l’iniziativa di un concerto fascista organizzato nel centro di Bologna
e per provocazione proprio il 12 dicembre, a 40 anni dalla Strage di
Piazza Fontana e dall’uccisione di Pinelli nei locali della questura di
Milano. La polizia e i carabinieri, in tenuta antisommossa e con un
numero esagerato di camionette, schierati come se dovessero presidiare
la zona rossa del G8 difendevano i loro amici che intanto facevano il
saluto romano ben protetti e sicuri di non essere raggiunti. Quando è
arrivata la notizia che il concerto non lo avrebbero più fatto, un
gruppo si è spostato nelle vie del centro per dire alla città che non
può essere accettata così senza fiatare la presenza di queste merde. In
via Marconi il corteo è stato attaccato dagli sbirri che nel frattempo
avevano ricevuto rinforzi. Tre compagni sono stati buttati a terra e
ammanettati. Poi è iniziata una caccia all’uomo che è arrivata fino in
via Indipendenza dove altri quattro sono stati fermati. Tutti e sette
sono stati portati in questura dove i quattro modenesi, fermati in via
Indipendenza, sono stati rilasciati dopo qualche ora, mentre Nicu,
Robbi e Andrea sono stati arrestati con l’accusa di lesioni e
resistenza. Un presidio solidale è stato improvvisato sotto i locali
della questura. Lunedì ci sarà o l’udienza di convalida degli arresti o
il processo per direttissima, si riservano di dirlo entro domenica sera
(poverini si vede che devono pensarci stanotte con calma dopo le botte
che hanno dato).
Solidarietà agli arrestati
Morte ai fascisti e ai loro amici in divisa

Bologna – Rassegna stampa e indirizzi compagni arrestati

Non si hanno notizie nuove al momento sulla situazione dei compagni
arrestati sabato 12 dicembre a bologna durante una manifestazione
antifascista.
Sono detenuti al transito della Dozza in attesa della convalida o del processo per direttissima.
per telegrammi e lettere
Roman Nicusor

Nadalini Roberto


Vaccari Andrea


casa circondariale Dozza


via del Gomito 2


40127 bologna



Da il Corriere di Bologna, domenica 13 dicembre 2009
I disordini- Cariche, manganellate e inseguimenti da via Indipendenza a
via Riva Reno
NATALE IN CENTRO, FRA SHOPPING E SCONTRI
SASSI SULLA POLIZIA, ARRESTATI TRE ANARCHICI
Tafferugli alla manifestazione contro i “nazi”: sette i fermati
In un sabato sera freddo, ma brulicante di persone, il centro di Bologna ha vissuto ieri dei brutti momenti. La gente in strada si è trovata ad assistere, sbigottita e spaventata, a una guerriglia tra anarchici e forze
dell’ordine. Inseguimenti, lanci di petardi e sassi, cariche, manganellate.
Da una parte i ragazzi “in nero” dall’altra le divise. Il tutto in un arco spazio-temporale ampio: da via Riva di Reno a via Indipendeza, dalle 20 alle 21 circa. Alla fine, poco dopo le 21 in vicolo Ariosto (laterale di via Indipendenza), i carabinieri hanno acciuffato gli ultimi anarchici. Sono sette in tutto i fermati, tra cui una donna. Ma alla fine soltanto tre vengono arrestati: frequentano il circolo di via San Vitale Fuoriluogo, ormai noto alle cronache, e tra loro c’è anche Roman Nicusor, romeno di 29 anni, tornato in libertà soltanto 10 giorni fa.
Ma partiamo dal principio. Ieri, a quarant’anni dalla strage di piazza Fontana, gli anarchici si erano dati appuntamento alle sette di sera all’incrocio tra via Riva Reno e piazza Azzarita. “Sgomberiamo i fascisti”, era l’appello alla mobilitazione che girava in rete da giorni. Cento metri più in là, nel club Anni ’80 di via Riva Reno, il partito di estrema destra Forza Nuova aveva organizzato il concerto del gruppo skin di destra Nessuna Resa. Una “provocazione fascista” per gli anarchici. Ed ecco dunque un copione già visto mille volte: i neri da una parte, i rossi dall’altra e nel mezzo la polizia. Tantissima: decine di agenti e carabinieri a tenere lontani i due gruppi. Al presidio in piazza Azzarita non hanno risposto solo i promotori (gli anarchici, appunto), ma anche alcune decine di persone che, cinque ore prima, avevano preso parte al corteo indetto dall’Assemblea Antifascista Permanente, una manifestazione pacifica ed autorizzata partita da porta Lame e finita allo stadio. A due passi dai militanti di estrema destra, dunque, c’erano circa 200 persone molto arrabbiate.
All’inizio soltanto cori contro “i fascisti”, poi, dopo una mezz’oretta, il primo lancio di petardi verso la polizia da parte di una quindicina di ragazzi con i volti nascosti da sciarpe e caschi e armati di bastoni. Poi, all’improvviso, un centinaio di persone si sono staccate incamminandosi verso via Marconi, ma prima, alcuni di loro hanno rubato una cariola da un cantiere e l’hanno riempita di sanpietrini. È con questi sassi che hanno danneggiato la vetrina di una banca in via Riva Reno, altri sono stati lanciati contro la Cariparma di via Marconi. Ma è al confine tra la zona aperta al traffico e la T che la situzione è degenerata: qui le forze dell’ordine hanno caricato i manifestanti, per un lancio di oggetti, sostiene la questura. La carica è stata violenta e la risposta anche: da una parte volavano manganellate, dall’altra sassi. Tre ragazzi sono stati bloccati e ammanettati a terra, davanti allo sguardo allibito dei passanti.
Sono i tre anarchici per cui, più tardi, verrà formalizzato l’arresto. Ma non è finita qui. Le forze dell’ordine provano ad acciuffarne altri. Li inseguono lungo via Ugo Bassi, ma ormai la maggior parte dei manifestanti si è dispersa nelle viuzze laterali. In piazza Nettuno la polizia blocca il traffico mentre i carabinieri, più avanti, in vicolo Ariosto, ne fermano altri quattro. E il centro torna quello di sempre.
Intanto, al club Anni ’80 di via Riva Reno, i “Nessuna Resa” hanno tenuto come da programma il loro concerto. I “fascisti” non hanno fatto una piega, nonostante quello che una ragazza ha detto al megafono prima che il presidio si sciogliesse e cioè che il concerto era stato rinviato.
 
Bologna – Udienza di convalida degli arresti del 12 dicembre
È stato confermato il carcere per Nicu e per Robbi. Andrea invece è ai
domiciliari. I capi d’imputazione sono: resistenza aggravata, lesioni
aggravate, danneggiamento aggravato, manifestazione non autorizzata e
lancio di oggetti pericolosi. Robbi è riuscito a far arrivare un
messaggio attraverso un compagno di cella uscito oggi di prigione. Era
con Andrea e stanno bene, il morale è alto invece Nicu non sono
riusciti a vederlo.
I compagni e le compagne degli arrestati

nuove esplosive notizie

Gorizia – Un pacco bomba al Cie di Gradisca

fonte il giornale

Un pacco esplosivo è stato recapitato ieri in serata nella sede del
Cie (Centro Identificazione Espulsione) di Gradisca d’Isonzo, in
provincia di Gorizia. Il pacco – da quanto si è riusciti a sapere in un
primo momento – è stato preso in consegna dal direttore della struttura
che, insospettito dall’oggetto, è riuscito fortunatamente a disfarsene
prima di uno scoppio. La deflagrazione non ha causato alcun ferito.
Delle indagini si stanno occupando le forze dell’ordine locali che oggi
– sempre stando a quanto trapelato finora – parteciperanno a una
riunione convocata dal Prefetto di Gorizia. Durante l’incontro in
programma gli inquirenti e gli agenti esamineranno il fatto e
valuteranno la situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica.

Milano – Ordigno alla bocconi

fonte: repubblica

Un pacco bomba è esploso, solo parzialmente, all’università Bocconi
di Milano. Un difetto nella costruzione ha fatto esplodere solo
l’innesco di un ordigno costruito con un tubo riempito da due
chilogrammi di dinamite, viti e bulloni e regolato da un timer. Era
stato abbandonato all’interno di una nicchia in uno dei corridoi tra
l’edifico di Via Sarfatti e la scuola di Management dell’ateneo. […]

Una lettera della Fai, la Federazione anarchica informale, ha
rivendicato l’attentato. In un volantino depositato questo pomeriggio
nella cassetta della posta della redazione milanese del quotidiano Libero […]

 

dossier Pistoia:C R O N A C A D I U N A R A P P R E S A G L I A



                                                                                                           

                                                                                                                                              
Cos’è l’ex Circolo 1° Maggio

Il 18 ottobre 2008, a Pistoia, i “fascisti del terzo millennio” (così si autodefiniscono i “bravi ragazzi” di casa pound) inaugurano un loro covo in via di Porta San Marco al numero civico 161, facendolo passare per un circolo culturale (nome: Agogè).
Nei giorni precedenti gli esponenti della Rete Antifascista Pistoiese cercano di mobilitare il quartiere; si organizzano alcune riunioni, si da forma ad un Comitato Antifascista che indice una Manifestazione sotto forma di PRESIDIO in Piazza San Lorenzo, simbolo del quartiere, che ha visto la ferocia nazi-fascista degli anni ’40. Sei inermi cittadini il 12 settembre 1943 vennero fucilati al muro del convento su questa piazza.
La risposta al PRESIDIO è forte e partecipata. Molti proletari del quartiere rispondono all’appello, tutti i sinceri Antifascisti di Pistoia sono presenti in piazza San Lorenzo.
Nei giorni successivi diversi Antifascisti del quartiere si riuniscono dietro la spinta di questa Manifestazione: prende corpo il Comitato Antifascista San Lorenzo.
Nelle settimane seguenti si cercherà una sede all’interno del quartiere dove organizzare un “Presidio Permanente contro il fascismo”. Non possiamo dimenticare che sempre in questo quartiere “storico” della Pistoia proletaria e antifascista, hanno trovato collocazione anche i nazisti di Forza Nuova (via San Bartolomeo, 6), almeno fino a quando non abbiamo visto il cartello: “affittasi” (novembre 2009).
In via di Porta San Marco, al numero 38 c’è l’ex Circolo ARCI 1° Maggio. E’ chiuso da due anni. Si chiedono le chiavi per poter effettuare alcune iniziative. Non senza difficoltà, dopo una non facile discussione, viene concesso l’utilizzo di questi locali.
Per un anno l’ex Circolo 1° Maggio rappresenterà, e tuttora rappresenta un PRESIDIO antifascista nel quartiere. Le iniziative per diffondere conoscenza e creare coscienza antifascista fanno di questo spazio un punto di riferimento per tutta la città.
Presentazione di libri, con gli autori, sulle nuove destre; proiezioni di documentari sulle Lotte di Resistenza dei Popoli oppressi e/o occupati; serate di solidarietà con i lavoratori in lotta, iniziative per i bimbi del quartiere (festa di carnevale, burattini ecc.), spettacoli teatrali a sfondo antifascista come quello dell’attrice Salvatori sul massacro di Sant’Anna di Stazzema. Tutto questo rappresenta l’ex Circolo 1° Maggio.

L’Assemblea

All’ex Circolo 1° Maggio si svolge dunque un’attività non solo antifascista e sebbene concentrata nel quartiere, rappresenta comunque una realtà viva e forte nel movimento pistoiese.
Per questo alcuni compagni chiedono al Comitato Antifascista San Lorenzo di voler ospitare un’Assemblea regionale di un costituendo Coordinamento contro le ronde fasciste e razziste.
La proposta crea discussione tra gli aderenti al Comitato. Si comprende che, sebbene l’attività sia di quartiere, questa deriva fascista delle ronde rientra in un più ampio intervento contro la fascistizzazione della società. Si concorda nel mettere a disposizione i locali dell’ex Circolo per questa Assemblea.
La data viene fissata per domenica 11 ottobre alle ore 16.30.
L’assemblea quindi viene pubblicizzata, come di consueto, tramite alcuni siti internet e alcuni blog, nonché via e-mail. Tutti strumenti che la polizia (leggasi Digos) tiene sotto controllo.
Pertanto la Questura di Pistoia, nel suo continuo monitoraggio dell’attività delle organizzazioni antagoniste è a conoscenza di questa iniziativa. E non scriviamo “ipoteticamente”, in quanto ce lo confermerà il questore Manzo in una dichiarazione riportata da Il Tirreno di martedì 13, come possiamo leggere poco oltre.

Alle ore 16.00 come previsto alcuni esponenti del Comitato di San Lorenzo aprono i locali e successivamente cominciano ad arrivare gli aderenti al Coordinamento contro le ronde. Chi conosce Pistoia arriva con l’auto nei paraggi, parcheggia e raggiunge a piedi il Circolo. Altri compagni, che magari hanno contatti con compagni pistoiesi collocano l’auto al parcheggio dell’ex Breda, più facile da raggiungere uscendo dall’autostrada e fissano di farsi venire a prendere. E’ il caso di Alessandro Della Malva e la sua compagna Katiuscia. Juri, anche lui in compagnia della sua compagna, lo raggiunge e lo accompagna in via San Marco, dove arrivano alle ore 16.20. Parcheggia l’auto per vedere chi c’è già, nonostante abbia fissato di andare alle ore 16.30 alla stazione a prendere due compagni che provengono da Prato in treno. Riparte insieme alla Laura ed è obbligato dal senso unico della via a passare davanti a casa pound, dove viene visto e riconosciuto da Dessi Massimo, che si trova sulla porta del covo neo-fascista. Alle 16.43 circa sono alla stazione dove incontrano i due compagni di Prato e insieme si dirigono in auto al Primo Maggio che raggiungono alle ore 17.05.
La Digos già staziona e controlla l’ex Circolo. A tutti e quattro gli antifascisti vengono presi i documenti.
Intanto l’Assemblea era iniziata regolarmente all’ora stabilita con tutti i compagni presenti eccetto questi che arrivano appunto alle ore 17.05 circa.

Alle ore 16.40/42 una pattuglia della Digos era arrivata all’ex Circolo e introducendosi nei locali identificava tutti i presenti.
Da quel momento questa stessa pattuglia stazionerà davanti ai locali e prenderà i documenti a tutti (o quasi) coloro, a questo punto pistoiesi, o del Comitato di San Lorenzo che sopraggiungono successivamente.

   Testimonianza di Katiuscia

Siamo arrivati a Pistoia io e Alassandro con la mia macchina una Peugeot 207 nera alle ore 14.00
circa…abbiamo parcheggiato in centro lungo un viale che porta al duomo (non so essere più precisa perché Pistoia non la conosco) abbiamo passeggiato lungo il viale, c’era un mercatino in una piazza e l’abbiamo girato tutto, poi siamo arrivati al duomo dove ho anche fatto tre foto (in quel momento mi sentivo tipo una turista senza immaginare cosa sarebbe successo da li a poco) poi verso le 15 abbiamo ripreso la macchina e ci siamo fermati presso la gelateria Parè a prendere un gelato e lo abbiamo mangiato seduti ai tavolini…poi ci siamo diretti presso il parcheggio ex Breda dove avevamo appuntamento con tutti gli altri per dirigerci poi al circolo 1° Maggio per fare la riunione. Ci siamo dati appuntamento lì all’ex Breda proprio perché non conoscendo Pistoia non sapevamo come raggiungere il circolo. Siamo arrivati al parcheggio verso le 15.50 e li abbiamo trovato Juri e Laura che erano appena arrivati… pian piano sono arrivati tutti e siamo partiti per dirigerci verso il 1° maggio. Io e Ale abbiamo lasciato la mia macchina all’ex Breda e siamo saliti sulla macchina di Juri.Alle 16.20 siamo arrivati al circolo e siamo rimasti lì e non siamo più usciti fino a che la DIGOS non ci ha portato in questura.  
    

     Ma cosa era accaduto?

Vediamo da una breve lettura dei giornali locali dei giorni successivi cosa è accaduto domenica 11, nello stesso momento in cui si svolgeva l’assemblea all’ex circolo 1° Maggio.

     “Un gruppo di circa 15 persone ha assalito oggi pomeriggio (domenica 11) intorno alle 16.30 il circolo….”
 Il Tirreno (on line) art. 1746075 – domenica 11 ottobre
     “Non abbiamo riconosciuto nessuno – dice ancora Tomasi – anche se gli aggressori hanno agito a viso scoperto.”  
La Nazione – lunedì 12 ottobre – Cronaca di Pistoia pag. 1
     “Intorno alle quattro e mezza di ieri pomeriggio un gruppo di circa 20 persone ha fatto irruzione all’interno del circolo ……Testimoni confermano le parole di Tomasi: ragazzi giovani”
 Il Tirreno – lunedì 12 ottobre – pag 7
     “Al Primo Maggio domenica c’era un’assemblea in corso, con militanti dei Carc di altre città toscane, che sono stati portati in questura per accertamenti”.
dichiarazione del questore Manzo  Il Tirreno – martedì 13 ottobre pag. 11
     “Nel pomeriggio di domenica, una quindicina di persone a volto scoperto…hanno fatto irruzione a Casa Pound dove si trovavano un militante e il consigliere comunale di Alleanza Nazionale, e dirigente regionale dei giovani del PDL, Alessandro Tomasi, 30 anni.”
La Nazione mercoledì 14 ottobre Cronaca di Pistoia pag.5

La RAPPRESAGLIA

Sui giornali leggiamo che l’incursione a casa pound è avvenuta “intorno alle ore 16.30”. Un poco dopo. Infatti sappiamo con certezza che la comunicazione telefonica che avvisava dell’avvenimento è giunta alle ore 16,37.
Ma soprattutto sappiamo che la persona che dalla finestra di casa assiste all’irruzione (il quale però, come del resto il Dessi e il Tomasi, non saprà riconoscere nessuno degli aggressori) al telefono chiama il 112, ossia i Carabinieri.
Può sembrare un aspetto secondario,  ma sicuramente non lo è.
MISTERO L’INTERVENTO DELLA DIGOS IN MENO DI 4-5 MINUTI?
NO! NESSUN MISTERO!
La Questura già aveva predisposto un “monitoraggio” dell’Assemblea al 1° Maggio. Dunque niente di strano se la Digos era già a controllare il Circolo.

E questo gli permette di sapere che nessuno degli aggressori è entrato al 1° Maggio. Sono ben coscienti dell’innocenza degli Antifascisti.
E noi sappiamo che è tutta una MONTATURA. Voluta da chi? voluta per cosa? Queste sono domande che poniamo.

Più sopra dicevamo che intorno alle ore 16.40/42 una pattuglia della Digos, comandata dall’ispettore Milicia Roberto, si portava in via di Porta San Marco, 38 e introducendosi nell’ex Circolo identificavano tutti i presenti.
Ovviamente senza dare alcuna giustificazione di ciò e lasciando i presenti esterrefatti di questo abuso.
I tempi ci portano ad ipotizzare che questa pattuglia si sia mossa dalla questura per dirigersi direttamente all’ex circolo 1° Maggio senza prima recarsi sul luogo dell’aggressione, o, come detto sopra, era già in loco.
Come non pensare che gli ordini impartiti a questa pattuglia erano di identificare tutti i presenti all’assemblea che la questura sapeva svolgersi al Primo Maggio?
Come pure a tutti coloro che raggiungeranno l’ex circolo nelle ore successive.

Ma possiamo ipotizzare una seconda direttiva avuta da questa pattuglia: tenere sotto monitoraggio l’ex circolo e impedire che qualcuno si potesse allontanare.
Ovviamente nessuno ha pensato di allontanarsi, anche per il solo fatto che neppure sapevano cosa era accaduto appena 200 metri oltre. L’Assemblea è proseguita nella più totale tranquillità e serenità. Anche questo denota la totale ignoranza dei partecipanti di quanto avvenuto a Casa Pound.

Il comportamento degli agenti ci induce a pensare che questi permanessero in via San Marco anche e soprattutto in attesa di “ordini superiori”.
Quali?
Quelli che si stavano decidendo in questura in una ipotetica riunione.
Riunione diretta da chi?

Non dimentichiamo che nel frattempo il consigliere comunale del PDL, che fino ad allora si trovava nel covo di casa pound, Tomasi Alessandro era stato condotto proprio in Questura.
Fino a che punto può essere influente un’esponente del PDL nel determinare un’operazione come quella scattata nelle ore successive?

Occorre anche pensare che Tomasi non verrà ascoltato nei giorni seguenti, mentre solo al Dessi si dà il compito del riconoscimento.
Riunione che pensiamo si protrae fino verso le 18.00-18.30.
Infatti, alle ore 18.30 circa allorché l’Assemblea al Primo Maggio ha termine, con un tempismo che spesso manca in situazioni di ben altra importanza, sopraggiungono sul luogo diverse auto di polizia e carabinieri.

E mentre i presenti all’Assemblea si salutavano e si dirigevano verso l’uscita un numero consistente di poliziotti ne impedivano la sortita, affermando che nessuno poteva lasciare il Circolo. Intimano che si deve perquisire l’ambiente. Momenti di discussione: richiesta del mandato di perquisizione, richiesta delle motivazioni. Niente di niente. Niente di più ILLEGALE!

E così, mentre i circa 20 partecipanti all’Assemblea vengono DEPORTATI in questura si procede alla perquisizione minuziosa di tutti gli angoli del Circolo. Risultato: “La perquisizione iniziata alle ore 18,45, terminava alle ore 19,30 successive con esito negativo per quanto riguarda il rinvenimento degli oggetti di cui sopra” (armi, n.d.r.) così leggiamo nel verbale di perquisizione redatto successivamente in questura. Norma che fuoriesce da ogni pratica che vuole la redazione del verbale nel luogo stesso della perquisizione. Ripetiamo: senza alcun mandato, ma si appellano ad un art. 41 t.u.l.p.s

 

E’ d’obbligo aprire qui una finestra sulla perquisizione, come si legge sul verbale “ex art. 41 T.U.L.P.S. (Testo Unico di Pubblica Sicurezza R.D. 18 Giugno 1931).

 “Il profilo della legittimità della perquisizione nell’ambito della disciplina speciale appare quanto mai ambigua”
“La perquisizione nella disciplina speciale”  dott. Antonio Calafiore.
Ed ancora: “In materia  di perquisizione sul posto, l’art. 41. 22.05.1975, n. 152 rappresenta un esempio eloquente in quanto palesa evidenti lacune nel momento in cui non indica tassativamente quei requisiti di “necessità e urgenza” che dovrebbero sottendere alla esecuzione dell’atto”.

Ed infine: “Anche l’art. 41 t.u.l.p.s., infatti, consentendo agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di effettuare perquisizioni, anche per indizio, lascia alla libera iniziativa, e alla valutazione discrezionale, degli organi di polizia il potere che la Costituzione, all’art. 13 comma 3°, riserva invece a questi organi solo in via eccezionale, in casi di necessità e di urgenza tassativamente indicati dalla legge.”
    
 
Testimonianza di Antonio

Abito non lontano dall’ex circolo 1° Maggio e facevo parte del Comitato Antifascista San Lorenzo. Domenica 11 ottobre ho pranzato con mio figlio e la mia compagna. Successivamente, verso le 16.30, mentre la mia compagna doveva passare da casa sua, io mi sono recato presso l’ex circolo per partecipare all’assemblea regionale, o quanto meno vedere di cosa si trattasse.
Mi incammino e raggiungo via di San Marco n° 38, circa alle ore 16.45, parcheggiata davanti ai locali vedo un’auto civetta della Digos e alcuni agenti, tra cui riconosco l’ispettore Milicia.
Entro nel circolo, al momento ci sono solo i circa 20 antifascisti che partecipano all’assemblea, che si svolge nella sala a sinistra sul fondo. Tutto il resto del circolo è lasciato incustodito. Pertanto decido di rimanere all’ingresso per evitare brutte visite. E qui rimarrò tutto il pomeriggio, avendo un paio di discussioni con l’ispettore Milicia.
Alle ore 18.30 circa, al momento dell’incursione in massa di un numero inspiegabile di poliziotti, vengo preso dalla polizia  quale responsabile per il Comitato per la perquisizione che intendono svolgere.
Mi accordo con un capitano (così penso, dal numero di stelle e di cui non
conosco il nome, ma potrei in qualsiasi momento rintracciare) che afferma di essere il dirigente di questa operazione. Chiedo che la perquisizione venga
effettuata da un numero congruo di agenti. Ci accordiamo su un numero di circa 5-6 che si identificano, comunque sono tutti in divisa. Chiedo e ci accordiamo che tutti gli altri agenti non interessati alla perquisizione

rimangano fuori dai locali, in modo da non intralciare e creare disagi. Per il Comitato, oltre al sottoscritto, rimangono altre 3-4 persone. Tutto procede tranquillo per una quindicina di minuti, con la minuziosa  ispezione di alcune stanze. In seguito sarò costretto ad invitare il capitano responsabile della perquisizione a chiedere ad alcuni agenti in borghese introdottisi nei locali ad uscire. Ad un primo invito questi lasciano il terreno. Non passa che pochi minuti e la  circostanza si ripete e questa volta ad introdursi nei locali sono un numero assai alto di agenti della Digos e verosimilmente anche di altre squadre. Si crea una situazione di vera e propria confusione dove un agente in borghese con una borsa a tracolla “sospetta” si aggira per i locali.
Ma è costretto ad uscire velocemente così come era entrato, presumo dopo che si è reso conto di non poter svolgere un qualche compito che gli era stato commissionato.    

In questura

Alcuni avvenimenti anormali accadono all’interno della questura.
Appena condottovi, Alessandro Della Malva viene immediatamente isolato dai rimanenti antifascisti e portato in altra stanza, anzi nel sotterraneo. Per fortuna la sua compagna Katiuscia chiede di rimanere accanto a lui e questo non lo possono negare se non vogliono da subito dichiarare le loro reali intenzioni.
Nell’ingresso, dove permangono le persone che erano sopraggiunte nel periodo successivo alla prima identificazione (tra cui Juri), vi è pure una ragazza bionda, inizialmente in compagnia di un altro giovane che dopo non molto si è allontanato, la quale si identifica, quando interpellata, come: “sono la fidanzata dell’aggredito”. Trattasi della fidanzata di Tomasi, la quale per lungo periodo prende appunti in un blocchetto. Cosa? Forse descrive le persone presenti fisicamente e nei loro abiti? Possiamo ben pensare a questo in quanto un’antifascista (Juri), sempre rimasto nell’ingresso e che uscirà dalla questura senza alcun provvedimento, risulterà tra i quattro posti agli “arresti domiciliari” lunedì 9 novembre. E più avanti vedremo le motivazioni del “fermo”.
Per almeno 3-4 ore a nessuno viene data alcuna motivazione della deportazione in questura, solo molto dopo si affermerà che sono lì per essere identificati; ricordiamo che l’identificazione di tutti gli antifascisti deportati era avvenuta nel primo pomeriggio alle ore 16.45 circa.
Così come è accaduto nel pomeriggio, in cui la questura si è presa due ore per decidere l’operazione da effettuare, così adesso si prendono ancora più ore per “COSTRUIRE” qualche prova in modo da poter dare corpo alla RAPPRESAGLIA decisa nell’ipotetica riunione pomeridiana.

Solo alle 5 del mattino successivo si informerà che per 3 antifascisti è scattato il “fermo giudiziario” e posti agli arresti (uno in carcere e due ai
domiciliari) mentre per altri 9 scatta una denuncia oppure escono dalla questura come “fortemente indiziati” (è il caso di Marco).

9 Novembre

Trascorrono ben 29 giorni e lunedì 9 novembre quattro antifascisti tra quelli deportati in questura l’11 ottobre vengono perquisiti nelle loro abitazioni e vengono sottoposti al provvedimento degli “arresti domiciliari”.
Due di Pistoia (Juri, 32anni  e Marco, 29 anni) e due di Livorno (Lorenzo e Selvaggio).
La perquisizione, almeno per quanto riguarda i due pistoiesi è alquanto stramba.
A casa di Juri non si scomodano molto.
Semplicemente: subito chiedono una maglietta di una determinata marca con un determinato disegno. Era la maglietta che Juri indossava domenica 11 ottobre, quando è stato deportato in questura dove è rimasto varie ore. E vogliamo ricordare che è sempre rimasto nell’ingresso dove era la fidanzata di Tomasi.

Non possiamo con certezza affermare che questa abbia passato alcune ore con il camerata suo fidanzata (consigliere comunale) e da questi abbia preso
ordini precisi su quello che avrebbe dovuto fare in questura appena avessero portato coloro che erano alla riunione al Primo Maggio. Però la sua tranquillità,
il suo prendere appunti e successivamente allontanarsi con ancora maggiore tranquillità ci porta a pensare un qualche suo ruolo in tutta questa faccenda.

Non potevano certo portarsi via solo la maglietta, troppo evidente.
Ma tutto l’altro materiale sequestrato consiste in volantini (distribuiti), giornali, libri e altro materiale che possiamo trovare in qualsiasi libreria.

A casa di Marco invece si chiede subito di un cappellino con visiera color verde. Marco ne ha diversi di questi cappellini con visiera e quasi tutti color verde. Lui che porta sempre uno di questi in testa. Centinaia di foto lo possono ben dimostrare. Prendono quello che indossava la domenica 11 ottobre, e non si sbagliano; sono ben sicuri di quello che devono prendere. Era stato in questura più di dieci ore: sotto le telecamere di sorveglianza. A Marco si arriva a sequestrare il computer. Ci pare un po’ strano che questo lo si possa far passare per “corpo di reato”. Più facile pensare ad un accanimento poliziesco contro un vero antifascista.
Eppure con questi banali oggetti di riconoscimento (che comunque non possono costituire alcuna prova, visto quanto detto in precedenza) Marco e Juri rimangono tuttora ai domiciliari

Si può ben pensare che questo sia unicamente: ACCANIMENTO GIUDIZIARIO.
Accanimento giudiziario che il p.m. Luigi Boccia  e il G.I.P. Matteo Zanobini  portano avanti senza motivazioni giuridiche di sostegno.
Dopo 29 giorni difficilmente ci si può appellare alla “reiterazione del reato”, al “pericolo di fuga”, alla possibilità di “inquinare le prove” per giustificare un provvedimento di arresti domiciliari.

Come minimo tutto questo sarebbe ridicolo se non fosse vero che quattro antifascisti si trovano tuttora agli arresti domiciliari.
Del resto siamo di fronte ad una indagine costruita a tavolino: con “fonti confidenziali” (il classico dito che vorrebbe coprire il gigante), con testimoni che ci sono ma non esistono, con riconoscimenti fatti due giorni successivi.

Come possiamo non pensare ad un “inquinamento delle prove”?
In due giorni si può aver letto gli “appunti” della fidanzata,
si può aver visto le riprese della  Questura,
ma soprattutto: si può essere “imbeccati”.
Dopotutto è lo stesso Tomasi Alessandro (consigliere comunale) a dirci, tramite La Nazione di lunedì 12:
“NON ABBIAMO RICONOSCIUTO NESSUNO”

“A – Cerchiata” da Eléuthera.

“A – Cerchiata” è il titolo del volume
edito da Eléuthera. 128 pagg. ill., euro 20,00.
Per ulteriori info: www.eleuthera.it

Graffitata
sui muri della protesta, ma impressa anche su zainetti, magliette,
ciondoli e cappellini, fino al più improbabile intimo maschile, la
A-cerchiata è un segno talmente conosciuto e riconosciuto che ha finito
con l’essere considerato un simbolo tradizionale dell’iconografia
libertaria.
In realtà, come ci raccontano i suoi ideatori, ha poco
più di quarant’anni: la A-cerchiata nasce come progetto nel 1964 a
Parigi, all’interno di una piccola rete di giovani anarchici, ma
comincia la sua vita pubblica nel 1966 a Milano sui volantini e
manifesti della Gioventù Libertaria. Di lì a poco, l’esplosione del
1968 – e la provvidenziale invenzione delle bombolette spray – farà
rotolare il simbolo nelle strade di tutto il mondo.

Questa inedita storia per immagini, insieme ai racconti che le
accompagnano, ne ripercorre la sorprendente, e spesso bizzarra,
diffusione planetaria sulla spinta della passione libertaria prima e
della cultura punk poi, fino al recente sfruttamento commerciale.

Un viaggio nell’immaginario contemporaneo che dà conto delle molteplici
interpretazioni – spesso inaspettate, talvolta contraddittorie – di un
simbolo nato con una forte connotazione specifica e diventato nel tempo
uno dei segni più usati per significare non solo anarchia, ma anche
rivolta, rifiuto, anticonformismo, trasgressione nelle più svariate
declinazioni.

 

Milano 1966 – Milano 2008
Intervista
ad Amedeo Bertolo

Amedeo
Bertolo aveva 25 anni quando, nel 1966, tracciava su matrici per
ciclostile le prime A-cerchiate «italiane». Docente universitario, si è
sempre occupato di editoria libertaria. Nel 1971 è tra i fondatori del
mensile «A rivista anarchica» e dal 1986 è uno dei responsabili di
Elèuthera.

Sei uno dei padri della A-cerchiata…

Solo
un padre adottivo. La A-cerchiata è stata ideata e «lanciata» a Parigi
nel 1964. Ma il lancio è stato un flop. A Milano, due anni dopo,
abbiamo ripreso e rilanciato l’idea. Questa volta il lancio ha
funzionato.

Quando hai cominciato a fare A-cerchiate ti aspettavi in qualche modo questo successo mondiale?

No.
Nessuno di noi della Gioventù Libertaria si aspettava gran che. O forse
sì: l’unico che fece qualche obiezione all’adozione del simbolo, lo
fece argomentando che era troppo semplice e dunque «falsificabile».
Chiunque avrebbe potuto firmare così qualsiasi cosa. Ne temeva cioè un
eccessivo successo (la sua generale identificazione come «firma»
anarchica) per potenziali usi distorti o comunque indesiderati.

Riesci
a ricostruire in che modo la A-cerchiata sia arrivata in Germania,
negli anni Settanta, diventando il simbolo degli Autonomen tedeschi? È
stata modificata o si è mantenuta quella «originale»?

Non
so come sia avvenuto il passaggio. Ormai la A-cerchiata aveva
cominciato a viaggiare libera per il mondo. Ma posso immaginare che la
scelta della A-cerchiata come simbolo sia stata fatta dagli Autonomen
tedeschi per connotarsi in senso libertario rispetto agli autonomi
italiani, di formazione marxista, che firmavano con la
falce-e-martello. E posso immaginare che la «loro» A fuoriesca dal
cerchio (come quella dei punk) per comunicare un ulteriore senso di
«rottura» dell’ordine e di eterodossia anche rispetto alla tradizione
anarchica. Ma forse è stata solo una casuale scelta estetica,
moltiplicatasi per imitazione. Oggi quella A-cerchiata è usata dagli
anarchici indifferentemente con quella «canonica», un po’ ovunque.

Qual è l’uso più originale, o che ti ha fatto più piacere, tra tutte le declinazioni della A-cerchiata che hai incontrato?

Ti
posso dire qual è quella che mi piace di più, per la sua eleganza
formale. È quella disegnata nel 1972 da mio fratello, Gianni, per la
testata della rivista anarchica «A»: una A con le grazie, in negativo
su fondo circolare nero, che è una mutazione della precedente testata,
anch’essa molto bella, a mio parere.

Sembri
piuttosto affezionato all’uso «filologicamente corretto» del simbolo:
le tue A-cerchiate preferite stanno nei margini del cerchio, non
sbordano, non hanno fronzoli… cosa ne pensi delle interpretazioni,
degli usi e abusi, dal punk al mondo della moda?

Pregevole
flessibilità del segno. E penso che siano inevitabili gli usi impropri,
abusivi, stravolti, commerciali di un segno che si è inscritto
nell’immaginario collettivo.

È
incredibile che, nel giro di poco più di quarant’anni, la A-cerchiata
si sia inserita talmente bene nei flussi dell’immaginario da perdere di
fatto le sue origini storiche a favore di una sorta di mitologia (come
le leggende diffuse su Wikipedia: la A-cerchiata attribuita a Proudhon,
quella avvistata sull’elmetto di un miliziano spagnolo…).

In un recente romanzo (Death at Victoria Dock,
di Kerry Green), ambientato a Melbourne nel 1928, un gruppo di emigrati
lettoni usa come segno distintivo la A-cerchiata tatuata sulla
clavicola (gli uomini) e sul seno (le donne). Mi aspetto che su
Internet prima o poi qualcuno vi si riferirà per «dimostrare»
l’anzianità del segno… Che nascano leggende attorno a un simbolo è
forse inevitabile e denota il suo successo. E poi forse piace più
un’origine mitica di una tutto sommato banale.

A
questo proposito, ti lancio una provocazione: l’A-cerchiata non ha
forse bruciato le tappe, fino a trasformarsi da simbolo unificante dei
movimenti anarchici in simbolo tuttofare, per indicare genericamente
«caos»? La cosa ti disturba o dopo tutto va bene così?

Mi
sembra che il significato di «caos» (magari nel senso della teoria del
caos) o meglio di rivolta contro-tutto-e-contro-tutti (persino nella
sua versione banalizzata e consumistica) possa convivere con la
connotazione più propriamente anarchica. Effetti non previsti di moto
caotico.

Mi è capitato di incontrare
dei ragazzi di Pieve Vergonte, un paese della Val d’Ossola, che mi
parlavano della A-cerchiata come di un simbolo in origine anarchico, ma
arrivato a loro attraverso il punk inglese… Dobbiamo rassegnarci a
una cultura anglo-sassone che sembra fagocitare tutto (e magari
«mettere sotto copyright» le prossime invenzioni per mantenerne la
correttezza filologica), oppure è un obiettivo sensato parlare di
anarchia in tante lingue, in molti modi, scommettendo sulla traduzione
culturale e la re-interpretazione creativa?

La seconda che hai detto.

Dopo quarant’anni la A-cerchiata è invecchiata come la fiaccola anarchica oppure può ancora funzionare?

Il
simbolo mi sembra ancora efficacissimo, sia come segno di rivolta
antiautoritaria sia come «firma» dei molteplici anarchismi
contemporanei. Il problema rimanda piuttosto alle forme e ai contenuti
delle rivolte e degli anarchismi, ma questo è un altro discorso.


Pino Cacucci
scrittore

Ne
ho viste scorrere dai finestrini dei treni, e continuo a vederne. Ogni
volta mi rincuorano: qualcuno, su quel muro, si è manifestato
libertario e refrattario al potere. Ne ho viste persino dai finestrini
di corriere stravaganti a Città del Messico, anche se spesso avevano le
zampe lunghe, che fuoriescono dal cerchio, e un po’ mi infastidiscono,
perché io le ho sempre tracciate ben chiuse nel tondo e così
dev’essere, non capisco perché i punk pretendano di usarle ma poi si
piccano di sforarle, quasi a volersi distinguere… Con il trascorrere
degli anni devo essere diventato un anarchico conservatore: le
A-cerchiate hanno le zampe che finiscono dove passa il cerchio, non
sforano, perdìo.
Le amate A circoscritte in quella sorta di sol
dell’avvenire, o sfera di mondo dell’Utopia, mi riportano ai primi anni
Ottanta, quando le vedevo a Parigi e a Barcellona, e prima ancora,
all’adolescenza ligure, quando contribuii a fondare il gruppo
Buenaventura Durruti del Tigullio, e allora ne tracciai tante che se i
comuni costieri che vanno da Sestri Levante a Rapallo – e in qualche
nottata brava pure Portofino, tiè – con Chiavari di mezzo dove vivevo,
mi chiedessero il risarcimento per i muri rimbiancati, sarei rovinato.
E tralascio il comune di Bologna, dove, soprattutto nel 1977, ho dato
il mio apporto grafico alla fioritura sia esterna che interna
dell’università, con il dams privilegiato: anche il pianoforte del
Dipartimento di Musica era istoriato di A-cerchiate…
Da imberbe, ero più timido: sul diario, sui quaderni, pure sul banco.
Però ero più preciso: con righello e goniometro, che diamine, anche per
fare la rivoluzione ci vuole tecnica e paziente cura dei particolari, i
frettolosi e superficiali diventano spesso stalinisti e successivamente
si iscrivono a un partito di governo.
Già, quanto tempo è che non traccio una A-cerchiata? Mi pare una vita.
Un’altra vita? No, è sempre questa, la miA: anarchici non si diventa a
un certo punto e per un certo tempo, anarchici si nasce, si vive e lo
si resta fino all’ultimo respiro.
Mi fermo qui, esco un momento, scusate, in cantina dovrei avere ancora
una bomboletta rimasta a metà… Mi è appena venuto in mente che in
cantina c’è una parete libera dalle mie sette biciclette.

Matteo Guarnaccia
artista visivo e saggista

Occupandomi
di immagini e immaginario, ho sempre provato interesse per i simboli,
l’araldica e le figure allegoriche, elementi di comunicazione capaci di
sintetizzare ed evocare concetti anche elaborati. Ho riscoperto
recentemente un mio disegno del 1971, uno studio sulla A-cerchiata,
trasformata in un buffo animaletto monoculare. Le lettere dell’alfabeto
trasformate in rappresentazioni fantastiche non sono una novità,
appartengono alla grande tradizione dei capolettera dei miniaturisti
medievali (tendenza seguita persino nella cultura aniconica araba, dove
i calligrafi indulgevano in questi trucchetti). A quasi quarant’anni di
distanza, quando gli amici della Fai di Reggio Emilia mi hanno chiesto
di disegnare un manifesto per il congresso nazionale, ho ripescato la A
animata, aggiungendovi una nuova versione che cammina su un uroboro,
l’eterno ritorno e la buñueliana Via Lattea.
È interessante il fatto che l’anarchia, una filosofia/movimento
politico che ha sempre negato, deriso, combattuto i simboli, sino a
sfiorare una certa iconoclastia, abbia sentito a un certo punto della
propria storia la necessità di crearsene dei propri. Un segno che la
psiche umana, al di là della razionalità autoimposta, si muove
costantemente a suo agio nella foresta simbolica. Nel dopoguerra, in
sintonia con il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa, dei
primi vagiti della società dello spettacolo, il minimalismo del colore
nero (o rosso/nero) era diventato inadeguato per colpire l’occhio
smaliziato del popolo. L’impasse venne superata grazie alla geniale
creazione grafica dell’artista Gerald Holtom, il cosiddetto «simbolo
della pace», logo del movimento antinucleare inglese Cnd dal 1958.
Dalla metà degli anni Sessanta, la A-cerchiata ne divenne un’erede
naturale, un segno graficamente impeccabile, adatto a essere disegnato
agevolmente sui muri o sugli eskimo, che conquistò i favori dei giovani
contestatori antiautoritari. Dopo anni di soggezione rispetto alla
potenza iconografica della falce-e-martello, anche l’area libertaria
aveva finalmente un suo logo riconoscibile e di immediata lettura.
Ma la metamorfosi non era finita, nel 1976-77 il simbolo subisce una
modifica sostanziale, perde la fissità geometrica, e diventa nervoso e
dinamico, la A straborda dal cerchio spezzandolo. È in questa versione
che diventa un logo popolare, usata come elemento decorativo sugli
abiti sovversivi prodotti dalla coppia di stilisti agitprop Malcolm
McLaren e Vivienne Westwood, gli «inventori» del punk. È grazie ai loro
sforzi che i ragazzini londinesi in piena crisi antagonista diventano
improvvisamente sensibili al fascino della parola anarchia – anche se
la collegano più a Syd Vicious che a Bakunin. La nuova A-cerchiata
viene sviluppata (o degradata, a seconda dei punti di vista) su ogni
supporto tessile rivelandosi come una delle grafiche più popolari del
periodo. La fascia rossa da portare al braccio con la scritta «Chaos»,
ovviamente con la A-cerchiata, diventa un oggetto cult.
Non è più tempo di bandiere, ormai sono gli abiti che si trasformano
direttamente in strumento di propaganda e di cospirazione, in
evoluzione tessile dei volantini. Grazie a testimonial che avrebbero
fatto la gioia di Cesare Lombroso, i Sex Pistols, le creazioni della
Westwood irrompono come ordigni incendiari nei guardaroba e da lì nel
paesaggio urbano. La trovata della coppia londinese troverà imitatori
in molte blasonate case di moda negli anni a venire. Il «decorativismo
fai da te» attuato sul proprio abbigliamento (spray o pennarello)
diventerà una costante dello street style. È davvero
singolare la deriva stilistica del simbolo di un movimento che sino a
quel momento aveva offerto come massimo contributo all’abbigliamento la
cravatta lavallière nera. Anzi, l’anarchismo aveva abolito tout court
la moda quando tutti gli abitanti di Barcellona tra il 1936 e il 1939
rinunciarono di colpo alla diversificazione sartoriale optando per una
democratica tuta blu unisex da operaio (intera o salopette) e scarpe
espadrillas. Ma forse era la moda stessa che si era estinta nell’estasi
rivoluzionaria.

Clelia Pallotta
studiosa di comunicazione

Quella
A-cerchiata sui muri, negli anni della militanza politica, mi sfidava a
visioni più energiche e lievi e dalle bandiere nere, impreviste nei
cortei tra tanto rosso, ammiccava. E anche gli anarchici, soli sotto
alle bandiere, mostravano la serenità compatta di chi sta dentro a un
ideale e si alimenta di un’utopia che non ha bisogno di conferme. La A
chiusa nella perfezione del cerchio, decisa come un timbro, chiara come
un grido. Simbolo magico, figura geometrica, segno evocativo di mondi
fantastici. Marchio eloquente, potente, che trasporta valori e produce
racconti. Regala un’aura di trasgressione a chi lo adotta cercando
identità. Eppure ha una forza melanconica, contiene nostalgia per cose
lasciate o non ancora trovate: addio Lugano bella, scacciati senza
colpa gli anarchici van via, a predicar la pace ed a bandir la guerra
per un mondo senza dominatori e senza ingiustizia.

Marco Pandin
A rivista anarchica

La
provocazione punk è stata totale. Il suono assordante e distorto, la
tecnica approssimativa o mancante, il canto stonato e urlato si
traducevano nel formidabile impatto visivo delle copertine dei dischi:
colori violenti in forte contrasto oppure il più economico bianco e
nero, strappi, graffi, bruciature e tagli. Netta ed evidente la rottura
con l’immaginario e il gusto degli anni precedenti: tanto il rock era
divenuto complicato quanto il punk era destrutturato e inconsistente,
dove i testi s’erano fatti poetici ora si celebrava con un linguaggio
scurrile lo sbando in attesa della guerra atomica.
Molti fanno risalire l’inizio del cortocircuito tra punk ed anarchia al primo singolo dei Sex Pistols Anarchy in the UK,
pubblicato nel novembre 1976: «Sono un anticristo, sono un anarchico /
Non so quello che voglio ma so come ottenerlo: voglio distruggere…». Ma
la prima A-cerchiata sbattuta sulla copertina di un disco a marchiare
consapevolmente un progetto rivoluzionario, del quale la musica
costituiva solo una strategia di comunicazione, è stata quella dei
Crass. Il gruppo era formato dagli occupanti di una comune hippie
anarchica di Epping, nella campagna a nord di Londra. Nell’estate del
1977 riuscirono a recuperare un minimo di attrezzatura tecnica e un
repertorio di cinque-sei pezzi, e decisero di chiamarsi Crass (sta per volgare, indecoroso). Il gruppo registrò in un piccolo studio casalingo il proprio debutto discografico, The feeding of the 5,000, dal quale fu poi costretto a sopprimere una canzone, Asylum
(un’invettiva femminista contro l’oppressione religiosa) perché
ritenuta indecente dai gestori dello stabilimento che doveva stampare
il disco. Si decise di pubblicare comunque e per conto proprio quella
canzone censurata, diffondendola con l’aiuto di un distributore
indipendente: questo sforzo venne premiato dalla visita premurosa di
Scotland Yard alla comune di Epping, già allertata da numerose
segnalazioni e da alcune denunce per vilipendio. Un processo per
blasfemia non bastò a fermarli, e certo contribuì a far nascere attorno
ai Crass un vasto movimento internazionale, centinaia di piccole
formazioni radicali e marginali impegnate ognuna a suo modo a sabotare
l’ingranaggio del sistema. Il giro anarcopunk si ingrossava, e il
signor padrone se ne accorse ben presto: l’A-cerchiata si trovò, spesso
a sproposito, per bieca scelta pubblicitaria, a «marchiare» numerose
produzioni discografiche degli anni Ottanta.
L’anarchia quindi
commercializzata come atteggiamento «moderno» e menefreghista in
contrapposizione all’impegno e al rigore del vecchiume ideologico,
anarchia come segno grafico innovativo per chi desiderava distinguersi
dalla massa, anarchia come strategia pubblicitaria per vendere
l’invendibile. Significativa è la dichiarazione di un membro dei Flux of Pink Indians,
uno dei più importanti gruppi anarcopunk inglesi: «Ci chiamavamo
Epileptics ma abbiamo deciso di cambiare nome perché non c’era nessuna
A da poter cerchiare».
Una preoccupazione per certo condivisa da numerosi altri gruppi, non soltanto inglesi.

Marco Philopat
scrittore e agitatore culturale

Nel
1981, i primi concerti che i punk milanesi organizzarono nella casa
occupata di via Correggio 18, nel futuro capannone del Virus, erano
contro la schiavitù delle tossicodipendenze. Per l’occasione
prepararono una mascherina per fare le sprayate sui muri con una bella
A-cerchiata la cui punta spezzava in due una siringa. Era il periodo
che l’eroina falcidiava i pochi punk presenti in città, quindi la
dicitura sotto quell’icona diceva: «Distruggi le tue illusioni, non la
tua vita»… A ripensarci oggi viene quasi da ridere per l’ingenuità
moralista espressa da questo semplice slogan, ma vi assicuro che fu una
cosa importante perché l’eroina rappresentava, e forse ancora oggi
rappresenta, l’ultima frontiera della trasgressione, quella più
difficile da varcare, per dei giovani ribelli, disperati e
autolesionisti, che volevano dimostrare al resto del mondo di essere
coraggiosi protagonisti di un repentino e pericoloso cambio
generazionale. I punk allora si dividevano in due: chi si faceva e chi
no. Inutile dire che i «militanti» di entrambe le componenti si
consideravano anarchici, fosse solo perché Johnny Rotten aveva gridato Anarchy in the UK.
Perciò mettere la siringa spezzata al posto della classica arma che
usavano i londinesi Crass per ribadire il loro no alla guerra, risultò
particolarmente efficace. Quelli che non si facevano continuarono le
loro attività per diversi anni, quelli che si facevano o la smisero e
si unirono ai non tossici o cominciarono ad allontanarsi schifati della
troppa e forzata politicizzazione del punk. Questi furono i primi di
una lunga serie di critici del nulla, poi diventati parecchi sotto
altre forme, e al giorno d’oggi sono la marea di debosciati tifosi
della musica che sostengono che il punk era solo concerti e
divertimento.
Ma quelli dell’A-cerchiata non scherzavano affatto, e
anche se pogavano e si divertivano lo stesso, erano sempre in prima
fila per fronteggiare polizia, fascisti e benpensanti in tutto l’arco
della giornata, settimana, mese, anno o intera vita che fosse… Non si
può sfuggire a tanta radicalità a corrente continua. Punk e A-cerchiata
un connubio minacciosamente perfetto…

Cinque anarchici del sud. Una storia degli anni Settanta

Angelo Casile, uno dei cinque anarchici rimasti uccisi, che protesta contro quel mondo così difficile da combattere

Capitolo 8
La rivolta di Reggio Calabria

 

8.1 L’insurrezione di un’intera città

Il
7 giugno 1970 la popolazione calabrese si reca alle urne per le sue
prime elezioni regionali. Si tratta di un avvenimento di portata
storica, che dovrebbe riunire i cittadini della regione garantendo loro
maggiore autonomia rispetto al governo centrale, ed offrire nuove
possibilità di sviluppo. Si assiste invece al ritorno al Medioevo, alla
lotta per la supremazia politica di una città sull’altra. Per due
lunghissimi anni Reggio vive una realtà di morti, di rancori, si
trasforma in una piazza d’armi, nel simbolo morale di una rivolta che
viene dal Sud.

Al termine della ribellione la
città conterà cinque morti, dieci mutilati e invalidi permanenti, oltre
cinquecento feriti tra le forze dell’ordine e un migliaio tra i civili.
Milleduecentotrentuno persone denunciate per duemila reati complessivi.
Solo nel periodo luglio- settembre 1970 ci furono diciannove scioperi
generali, dodici attentati dinamitardi, trentadue blocchi stradali,
quattordici occupazioni delle stazioni, due della posta, una
dell’aeroporto, quattro assalti alla prefettura e quattro alla
questura. I danni economici alla città, paralizzata per molti mesi in
quasi tutte le sue attività, furono dell’ordine di diverse decine di
miliardi di lire.

 

La
rivolta nasce quasi per caso. Reggio Calabria, città di frontiera,
provincia emarginata e priva di qualunque modello di sviluppo, e da
tempo potenziale polveriera per la sua disperata situazione
economico-sociale, esplode contro la convocazione del Consiglio
Regionale a Catanzaro.

Dietro la protesta c’è una
situazione socio-economica di notevole gravità. Non più di cinquemila
persone in tutta la Calabria sono occupate stabilmente in grandi
aziende. A Reggio dodicimila persone vivono in squallide casupole,
alcune delle quali risalivano al 1908, anno del terremoto che aveva
distrutto la città. In queste circostanze, le possibilità offerte dal
settore pubblico erano di vitale importanza. Reggio, una delle città
più povere d’Italia, doveva diventare capoluogo regionale. Lo stesso,
del resto, poteva dirsi di Catanzaro, solo lievemente meno misera.

 

L’orientamento
ufficiale del governo è di attribuire il capoluogo di regione a
Catanzaro, la sede dell’Università a Cosenza e l’istituzione di un
nuovo polo siderurgico a Reggio, come risarcimento . Nei primi mesi del
1970 i timori e le incertezze che Reggio perda il suo posto di guida al
centro della Regione si diffondono tra la classe politica e, in seguito
sempre più forti, tra la cittadinanza.

La
popolazione insorge il 13 luglio 1970; in mattinata si riunisce a
Catanzaro il Consiglio regionale, nel quale sono assenti i cinque
consiglieri della DC e il socialdemocratico eletti nella provincia
reggina, che inviano un lungo telegramma nel quale sottolineano di non
riconoscere valida la riunione di Catanzaro in quanto il capoluogo
della Calabria è Reggio.

In città, nel frattempo,
si tiene una controassemblea alla presenza di parlamentari della
provincia, consiglieri comunali e provinciali, rappresentanti degli
ordini professionali, sindacati e cittadinanza, nel corso della quale
viene indetto uno sciopero generale. Iniziano i primi blocchi stradali,
e a sera la situazione è già così tesa dafar affluire agenti di polizia
e carabinieri da altri centri della provincia. Comincia a delinearsi
inoltre la spaccatura politica, sia nazionale che locale: il PSIUP
condanna la scelta della Dc di non aver voluto partecipare ai lavori
del neonato consiglio regionale, delegittimando così l’istituzione
regionale, e in una nota “respinge il tentativo della Dc reggina di creare un clima di rissa e divisione”. La direzione provinciale del PLI al contrario esprime “solidarietà a quanti si battono per l’affermazione del diritto di Reggio ad essere capoluogo di regione” e invita i suoi aderenti “ad essere promotori e sostenitori di ogni iniziativa tendente a tal fine”.

Il
14 luglio iniziano le prime barricate, innalzate con qualsiasi cosa
capiti sottomano. In serata la situazione precipita improvvisamente, e
la prima giornata di scontri si conclude con venti feriti e la totale
adesione della popolazione allo sciopero: anche i ferrovieri
aderiscono, abbandonando i convogli in maniera tale che nessun treno
possa proseguire. La cittàèisolata .

Alle 23:30 del
15 luglio un gruppo di carabinieri trova, in una traversa del corso
principale, il cadavere di Bruno Labate, 46 anni , frenatore delle
ferrovie. Si tratta della prima vittima dei fatti di Reggio. Nei giorni
seguenti la guerriglia urbana si fa sempre più cruenta, con il
tentativo di assalto alla questura, l’incendio della stazione
ferroviaria di Reggio Lido, l’interruzione delle strade. I disordini si
estendono anche a diversi centri della provincia reggina;
particolarmente grave è il blocco di Villa San Giovanni, unica via di
collegamento con la Sicilia.

 

“Sarebbe
parziale guardare ai moti di Reggio unicamente come ad uno scoppio di
ira popolare suscitato da meschini motivi di orgoglio paesano o da
gruppi interessati.

La componente del
campanile c’è ed è anche inquinata da elementi passionali, facinorosi;
ma non è preminente rispetto ad altri di natura economica e sociale. Al
fondo della collera ci sono anzitutto una debilitante povertà e un
senso amaro di frustrazione. Sia nel capoluogo, sia nella provincia è
in corso un processo di decadimento continuo. Di questa situazione
sarebbe parimenti ingiusto dare la colpa ai reggini.”

 

“La
rivolta di Reggio, perché di questo si tratta, non nasce solo da un
esasperato amore di campanile. C’è, nella tragedia di Reggio, la
protesta di una città che ha un reddito pro capite tra i più bassi
della penisola, la dolorosa illusione di un antico centro glorioso che
crede di trovare la sanatoria ai propri problemi di sviluppo economici
nell’evasione spagnolesca di una “capitale regionale”, tale da
competere col fasto dirimpettaio del siciliano palazzo dei Normanni.

Ci
sono eredità millenarie unite a miti recenti, le une e gli altri
alimentati con tranquilla incoscienza da gruppi locali volti ad una
gara spietata e cinica per il potere. Impossibile classificare la
rivolta di Reggio, come già quelle di Battipaglia ed Avola, sotto una
qualsiasi prospettiva politica. Fermenti di anarchismo atavico, tipici
delle classi diseredate protagonisti delle “jacqueries” di una volta,
si uniscono con un moto insondabile di negazione e di rivolta nella
piccola borghesia intellettuale e professionista del sud, umiliata in
tutti i suoi ideali, tenace nella fedeltà a certe tradizioni o a certi
fantasmi di grandezza.”

 

Si tratta di una rivolta a suo modo anomala, nella quale partecipano anche donne e bambini.

 

“A
difesa delle barricate erette di nuovo a S.Caterina e sul ponte di
S.Pietro, c’erano questa mattina anche donne e bambini. Le loro istanze
per un domani migliore devono essere accolte dal
Governo che non può più continuare ad ignorare cosa sta accadendo da cinque giorni in questa città tanto tormentata.”

“Le
donne, violentando ogni tradizione, che non è certamente quaggiù una
tradizione patriarcale, hanno organizzato una chiassosa, pittoresca,
arroventata “uscita”…Non sono come le donne di Aristofane, scioperanti
pacifiste e di alcova: sono, viceversa, più guerrafondaie e piazzaiole
dei mariti. Tante Anita Garibaldi, tante Evita Peron, tante contessa
Maffei…Una distinta signora, moglie di un ingegnere, al volante di una
“Sprint”, con i capelli arruffati e gli occhi ardenti, spiegava oggi,
mentre si apprestava a ripartire rombante: “Ho mandato sulle barricate
la cameriera, figurarsi se non ci vado io!”.

 

Sono
scontri surreali, nei quali la violenza dei dimostranti spinge ad
incendiare fabbricati ed assaltare pubblici edifici, bloccare le vie di
comunicazione e i ripetitori tv, innalzare le barricate ma- allo stesso
tempo- abbandonarle per una tacita pausa nei combattimenti all’ora di
pranzo e della pennichella pomeridiana.

 

“Un
capitano dell’arma così raccontava stamani che durante i disordini,
mentre era impegnato in una scaramuccia a contatto con i rivoltosi, e
volavano le pietre e le bombe lacrimogene, gli è caduta la pistola. È
stato uno dei dimostranti a raccoglierla e restituirgliela, fuggendo
verso i compagni per riprendere la lotta. Ai reparti impiegati per
l’intera città ed in difficoltà per il rancio, gruppi di ragazze hanno
portato cestini di viveri e bottiglie di Coca Cola senza certo pensare
di tradire i fratelli impegnati sulle barricate. Una isospettabile
cavalleria ha distinto i rivoltosi anche nelle giornate più calde. Si
tenga conto che a Reggio, come in tutta la Calabria, esiste il maggior
numero di porto d’armi per fucile da caccia e pistole. Da queste armi
non è partito un colpo nemmeno quando l’odio è traboccato dopo la morte
del ferroviere.

Rarissimi sono stati i
saccheggi. Solo quando è andata in frantumi la vetrina di un negozio di
banane, molti ragazzi hanno fatto una scorpacciata degli esotici
frutti. Nei quartieri più miseri sono state divelte le tabelle della
segnaletica stradale, incendiati gli autobus, ma le macchinette per la
distribuzione delle sigarette hanno ancora tutti i vetri intatti e le
“nazionali esportazione” sono tutte al loro posto. Alla stazione lido
sono state date alle fiamme le strutture dello scalo ferroviario, ma
sono stati risparmiati i libri della rivendita. Nelle cabine
telefoniche stradali sono stati infranti i cristalli e strappati i
fili, ma gli apparecchi muti nessuno se li è portati via. Una rivolta
davvero singolare dunque, nella quale tutte le forme di scontento, per
qualsiasi ragione si sono sommate, senza che nessuna prevalesse ed
hanno giocato un loro ruolo, ognuna per proprio conto, in un amalgama
di solito difficile a realizzarsi.”

Ma la protesta assume anche toni stravaganti:

“Se
volete vincere la battaglia per Reggio capoluogo, diceva stamattina ai
dimostranti un anziano signore col cappello di paglia, dovete
rinunciare alla violenza e fare ricorso alla fantasia. I dimostranti
l’hanno ascoltato.”

La
popolazione si dirige verso un santuario della città che ospita un
antico quadro della Vergine, la “Madonna della Consolazione”e, per
tutta la giornata, lo trasporta in processione per le vie della città: “Questa è stata la giornata della Madonna rapita”; “Un cartello precedeva la processione senza preti. C’era scritto: Maria, ci sei rimasta solo tu!”

 

In
questa atmosfera di guerriglia urbana, un evento riscuote gli animi dei
dimostranti e riaccende le polemiche: il 22 luglio, nei pressi della
stazione di Gioia Tauro, deraglia la Freccia del Sud.

Iniziano
a rincorrersi le voci di un possibile attentato doloso al treno, in
relazione ai disordini di Reggio,ma tutti gli organi istituzionali, dal
questore Santillo al prefetto De Rossi, smentiscono decisamente e
archiviano il tutto come uno sciagurato incidente.

 

In
un clima di completo abbandono, in cui la città viene lasciata sola a
se stessa e non c’è un rappresentante del governo o uno degli uomini
politici di origine calabrese che fronteggi la popolazione, la scena è
tutta per i capipopolo e l’iniziativa dei singoli, da uno come
dall’altro fronte.

Uno dei nomi legati a futura
memoria ai moti di Reggio è quello di Francesco (Ciccio) Franco. Il
missino, che copiava da Mussolini alcune pose oratorie e aveva coniato
la parola d’ordine di “boiachimolla”, si era impossessato del comando
di uno dei più grandi moti di piazza del ‘900 meridionale. Fino alle
barricate, Franco avrebbe potuto essere considerato un qualsiasi peone
del partito di estrema destra. Sindacalista Cisnal dei ferrovieri,
consigliere comunale in continuo dissidio con la federazione locale,
pochi giorni prima dello scoppio della rivolta non era stato nemmeno
eletto alle prime elezioni regionali. Franco diventerà il capo della
folla che conquisterà con frasi ad effetto: parla di riscatto del Sud,
di destino offeso e di necessità a rivoltarsi. Riesce intercettare le
ansie e le aspettative tradite di una intera popolazione, spesso
sottovalutate dai partiti politici.

 

Un
altro personaggio che legherà il suo nome ai fatti di Reggio è Piero
Battaglia, sindaco Dc della città dal 1966, che insieme al suo partito
politico forma un comitato politico unitario che coordinerà le prime
fasi della rivolta. Non dotato dello steso carisma di Franco, il
sindaco Battaglia riesce comunque in un primo momento a coalizzare il
moto di piazza e le principali forze politiche, ad esclusione di Pci e
Psi, attraverso assemblee pubbliche, comizi, manifestazioni di piazza e
soprattutto con lo sciopero generale che immobilizza a più riprese la
città.

Trent’anni dopo in un’intervista ad un quotidiano locale, Battaglia dichiara:

 

“Lo
Stato è stato manforte della polizia, dei carri armati. I reparti
peggiori, quello di Padova soprattutto, sono stati mandati per punire
la città. Neanche Fanfani, al lido Cenide di Villa San Giovanni, ebbe
l’intuizione di quello che stava per accadere e disse che la Regione
riguardava Quaranta applicati, pochi uomini. Neanche lui ne capì
l’importanza.”

 

Un ulteriore elemento da evidenziare è la totale incapacità di comunicazione tra i partiti e la piazza.

Nel
corso della rivolta lo Stato viene a mancare sia nella sua dimensione
istituzionale che in quellapolitica. Per quanto riguarda il primo
aspetto, l’unico esponente visibile della Repubblica a Reggio è il
questore Emilio Santillo, che con grande padronanza di nervi riesce a
mantenere il controllo della situazione; è evidente però come la tenuta
delle istituzioni democratiche in una città non possa essere delegata
al singolo. Nessun rappresentante del Governo si reca a Reggio nei
lunghi mesi della sollevazione popolare, instillando nella piazza la
convinzione di non avere “protettori” a Roma della stessa importanza
delle altre due province.

 

La
prima “fase calda” della protesta si esaurisce tra la fine di luglio e
agosto. Inizia un periodo definito dai dimostranti stessi di “vigile
attesa”, linea che si definisce opportuna fino “alla prossima
riunione del Consiglio regionale, di modo che non venga pregiudicato,
attraverso intuibili camarille e basse manovre, il sacrosanto diritto
della nostra città al capoluogo”.

 

Il
secondo scoppio di violenza ha inizio nel settembre 1970. Questa volta
si scatena una vera e propria guerriglia urbana. L’apice della violenza
si raggiunge il 17 settembre con l’uccisione, apparentemente senza
motivo, di Angelo Campanella da parte della polizia. L’uomo, un autista
dell’azienda municipale di trasporti e padre di 7 figli, viene colpito
mentre di ritorno a casa nel popolare quartiere “Ferrovieri” si trova
casualmente coinvolto negli scontri sul ponte Calopinace.

Poco
dopo l’annuncio della morte di Campanella, viene arrestato per
istigazione a delinquere in base all’art. 414 Francesco Franco, leader
del Comitato d’azione. Contro di lui era già stato spiccato mandato di
cattura dal procuratore della Repubblica; stessa sorte di Franco
subisce l’ex comandane partigiano Alfredo Perna, accusato dello stesso
reato.

La notizia della morte di Campanella e degli arresti fa rapidamente il giro della città, eccitando gli animi.

 

“Per
le vie di Reggio avveniva il finimondo. I dimostranti si sono
abbandonati a devastazioni d’ogni genere distruggendo la segnaletica
stradale, incendiando masserizie e copertoni d’auto, saccheggiando
perfino alcuni negozi…Corso Garibaldi ha preso l’aspetto di un campo di
battaglia dove l’aria era irrespirabile per il fumo provocato dagli
incendi di stracci cosparsi di carburante e dai candelotti.”

 

La
ferrovia brucia in più punti, tutti i treni sono fermi. I dimostranti
svaligiano tre armerie, impossessandosi di centoventi fucili e pistole,
oltre ad un ingente quantitativo di munizioni.

In
città si spara ovunque. Cinquecento dimostranti circondano il palazzo
della Questura e costringono le forze dell’ordine a riparare dentro. Si
sentono colpi di fucili da caccia, raffiche di mitra, esplosioni di
bombe Balilla.

 

“Si è
trattato di un vero e proprio assedio, nel corso del quale, a più
riprese, ai colpi d’arma da fuoco sono seguiti lanci di grossi petardi
e bottiglie incendiarie. C’è stato anche un tentativo di sfondare il
portone che è stato respinto. Durante questi drammatici momenti il
brigadiere Curigliano è stato colto da un malore cardiaco: dalla
Questura è stata chiamata telefonicamente un’ambulanza che è giunta
però con molto ritardo, data la situazione. Il sottufficiale, quando ha
potuto essere soccorso e trasportato, era agonizzante ed è morto poco
dopo.”

 

La
mattina successiva, dall’uno e dall’altro fronte, si conteranno 2 morti
e 12 feriti; molti tra i dimostranti non hanno fatto ricorso alle cure
dei medici degli ospedali per non essere identificati.

Interviene anche il presidente Saragat che in un messaggio fa appello “a
tutti i cittadini di Reggio Calabria perché nella rinnovata coscienza
di ciò che la loro città rappresenta per tutti gli italiani ritrovino
la via della serenità e della concordia”.

Gli
scontri proseguono. La rabbia dei dimostranti si rivolge ora anche
contro i giornalisti, colpevoli secondo la popolazione di rappresentare
un’immagine distorta della rivolta. Alberto Cavallaro viene querelato
dopo un intervento sulla Rai-Tv, mentre alcuni – tra i quali l’inviato
di “Panorama” Lino Rizzi- vengono addirittura aggrediti fisicamente in
città.

 

Il 21 settembre scatta
l’operazione “città pulita”, preparata dalla Questura con vere e
proprie strategie militari. L’obiettivo è di liberare i due quartieri
assediati di Sbarre e S. Caterina.

In brevissimo
tempo, e senza alcun incidente, grazie all’impiego di mezzi cingolati
(M-113) e di autocarri sono rimosse quasi tutte le barricate. Gli
abitanti del rione si limitano a guardare.

A lavoro
ultimato si hanno 47 camion carichi di materiale oltre a 50 carcasse di
auto nel solo rione di S.Caterina. Dopo tre giorni di paralisi totale
riparte il primo treno. Abbattute le ostruzioni, agenti e carabinieri
presidiano le piazze, gli edifici pubblici, il porto, le stazioni
ferroviarie. Reparti della Celere e dei battaglioni meccanizzati dei
carabinieri presidiano le vie d’ingresso alla città.

 

“È
finita davvero, dunque? Sta di fatto che Reggio riprende a vivere…Una
città non può suicidarsi. Non c’è la normalità, si capisce. Non c’è la
calma degli animi, ma c’è il desiderio di trovare una via d’uscita.
Rimangono l’amarezza e una sorta di rabbia impotente. Componenti che
non bisogna sottovalutare. Proprio da qui potrebbe scaturire una nuova
esplosione che sarebbe la più pericolosa. Guai sei reggini avessero la
sensazione di essere stati sconfitti.

La
componente maggioritaria dello scoppio d’ira è la componente
economico-sociale, non c’è dubbio. Se il professionista è sceso in
piazza accanto al “Lazzaro” di periferia, se l’operaio s’è affiancato
agli studenti, non è accaduto per caso o per gioco. Teniamo poi
presente che le vere battaglie sono avvenute nei rioni popolari,
con partecipazione di giovani, ragazze, uomini, con l’aiuto di donne
che sono mamme, spose, talvolta nonne. Chi non l’ha vista questa
rivolta stenta a crederlo. Ecco perché la risposta ai reggini non può
essere se non politica. Il naturale interlocutore dell’opinione
pubblica devono essere Governo e Parlamento”

 

La
rivolta finisce, così, con una tregua imposta; lascia la città
stremata, in condizioni economiche disastrose: non si produce, non si
commercia, ogni attività è ferma, le saracinesche sono abbassate. Le
linee di comunicazione sono precarie e da ripristinare; i telefoni
funzionano poco e male. Strade, stazioni ed aeroporto sono parzialmente
inagibili.

 

8.2 Le interpretazioni

Le
letture politiche e le interpretazioni dei fatti di Reggio sono
molteplici e spesso contraddittorie. Di fronte ad un evento, come
quello della sollevazione popolare calabrese, che sfugge ad ogni
catalogazione per le sue caratteristiche peculiari e distintive, il
tentativo di comprensione risulta difficoltoso.

 

Se
inquadrati nel contesto politico generale del Paese, i fatti di Reggio
costituiscono una contraddizione improvvisa, ma non del tutto
imprevedibile. Su un piano più specificatamente regionale, la lotta di
campanile si lega e si confonde con una battaglia politico-personale di
asprezza inusitata. Giacomo Mancini è investito da una campagna
denigratoria che culmina, proprio durante i moti, nella campagna
scandalistica organizzata dal giornale fascista “Candido” e imperniata
sulle cosiddette “aste truccate” dell’Anas.

Le
ormai numerose ricostruzioni dei moti di Reggio hanno sottolineato
questi nessi col contesto nazionale e con gli avvenimenti locali, ma
hanno anche evidenziato abbondantemente che la rivolta è nata
all’interno dei partiti, e in particolare tra il notabilato locale
della Dc e del Psdi, il quale ha scatenato la lotta per “Reggio
capoluogo” per confermare sul piano burocratico -amministrativo un
predominio che sembrava vacillante. Nel 1970, dopo l’istituzione delle
regioni, quei notabili hanno da constatare, in forma di ulteriore
sanzione istituzionale, la propria marginalità rispetto ad una prassi
politica saldamente agganciata alle leve politiche dello Stato, che
solo i “cosentini” Mancini e Misasi hanno dimostrato di conoscere fino
in fondo.

Inoltre della rivolta reggina si fa poi
protagonista la piccola borghesia impiegatizia. Questa reagisce alla
precarietà economica e alla perdita di identità sociale e culturale,
dovuta alle trasformazioni dell’ultimo decennio, riscoprendosi capace
di un ruolo di mediazione politica e culturale tra le classi
subalterne, urbane o urbanizzate, e le classi dominanti locali. Ed è
questo uno dei dati più interessanti: il ceto medio impiegatizio che si
fa ceto dirigente della città in rivolta, in una situazione dilaniata
tra sottosviluppo ed emarginazione da una parte, neocapitalismo e
modernizzazione dall’altra.

Il segno politico della
mediazione tra questi elementi, che diventerà prevalente nella rivolta,
cioè quello fascista, è paradossalmente “difensivo”, nella misura in
cui si richiama, in un modo o nell’altro, ai valori “traditi” della
cultura locale. Non è un caso che i fascisti, raccogliendo il bisogno
popolare di avere un nemico facilmente riconoscibile e tangibile,
demonizzino in modo pesante e volgare l’immagine-simbolo di Mancini. Un
discorso analogo, anche se ovviamente ribaltato, si può fare per il
ruolo attribuito alla statua della Madonna, portata in processione per
le strade della città in rivolta. Si tratta in questo caso di un
tentativo di sacralizzazione della lotta, che rimanda alla cultura
delle classi contadine, ma dà anche la misura della sconfitta: in una
situazione di deprivazione e d’impotenza, l’estremo tentativo consiste
nell’affidare al rito propiziatorio la possibilità di immettersi in un
circuito di potere.

Come è stato anche osservato,
l’invocazione del santo protettore o della Madonna è una sorta di
trasposizione religiosa del meccanismo clientelare di raccomandazione.
I paradossi della situazione calabrese sono tutti simbolicamente
racchiusi in questo scarto, tra la tecnica spettacolare e
trionfalistica delle campagne elettorali manciniane, attente ai modi di
organizzazione del consenso di una società dell’informazione, e
l’estremo ricorso al sacro dei dimostranti reggini, che allude a una
maglia politica e clientelare locale non più in grado di reggere alla
complessità e ai ritmi crescenti delle strutture e dei rapporti
politici.

 

A sinistra si guarda alla rivolta con imbarazzo e non senza qualche miopia.

I
partiti ufficiali dimostrano una completa incapacità di analisi; nel
corso dei disordini prevarrà un senso di immobilismo, tanto da
provocare da parte della sinistra più estrema le accuse di avere
richiesto una maggiore repressione del moto popolare.

Gli anarchici dell’Internazionale situazionista scrivono:

“Il
18 ottobre i comunisti di Reggio ammettono soltanto di “avere perso il
treno”, mentre in realtà hanno perso anche i ferrovieri”.

Un
sostanziale abbaglio viene preso però da queste forze della sinistra
più estrema e da alcune frange del movimento anarchico, che
semplificando i caratteri della rivolta scambiano i fatti di Reggio per
la rivoluzione.

“Presto verrà che le bandiere
rosse saranno issate dal popolo di Reggio sui quartieri in lotta. E
allora cosa diranno i filistei che hanno volutamente confuso il
terrorismo fascista con la ribellione di un popolo sfruttato? Dovranno
nascondersi davanti ai lavoratori che li hanno ascoltati non sapendo la
vera situazione che si è creata a Reggio Calabria!”

 

“Ormai
qualsiasi pretesto è buono in Italia per iniziare una rivolta sulla via
della rivoluzione sociale: a Caserta una partita di calcio, a Reggio
Calabria un’assemblea regionale. Non è lo Stato che sceglie di
“abdicare”, come dice la stampa di destra: è al contrario il
proletariato che con le sue lotte rivoluzionarie lo costringe sempre
più decisamente ad abdicare.

 

Un
tentativo di analisi più complessa è realizzata dal Gruppo Anarchico
Kronstadt di Milano;in un ciclostilato del 29 ottobre 1970, dopo aver
identificato nelle componenti operanti nella rivolta quella borghese
che afferma i propri interessi mafiosi, e quella proletaria che esprime
l’insofferenza per la propria situazione, scrive:

 

“Assurdo
è però vedere in questa lotta l’espressione più alta dello scontro di
classe in Italia solo per la sua violenza come sembrano fare i compagni
di Lotta Continua che sono arrivati a definire Reggio “capitale del
proletariato”.

La violenza della lotta non
basta a qualificarla come rivoluzionaria ma unico elemento di giudizio
valido è il rapporto in cui si pone per forme e contenuti rispetto alla
crescita della lotta di classe e quindi la sua capacità di
generalizzarsi e di essere fatta propria da tutta la classe.”

 

8.3 L’intervento degli anarchici nella rivolta di Reggio

Il
gruppo anarchico partecipa attivamente alla rivolta della città; ma lo
fa con un ruolo diverso. Per gli anarchici, il capoluogo non è un vero
problema; i problemirealisono la disoccupazione, la miseria, la mafia,
la corruzione della classe dirigente. Si adoperano a modo loro per
cercare- soprattutto- il dialogo con la popolazione, per tentare di
interpretare il disagio con gli strumenti di comprensione che hanno in
più rispetto ai “compagni” anarchici lontani, che poco conoscono la
realtà depressa della città.

Soprattutto per quelli
tra di loro, come Casile e Scordo, che provengono dai quartieri più
coinvolti nei disordini, i vecchi rioni ancora fatiscenti abitati dai
pescatori e dai ferrovieri,e vivono le condizioni di vita disperate che
spingono i dimostranti sulle barricate, diventa fondamentale immettersi
nella rivolta con istanze diverse e nuove.

Il
gruppo degli anarchici reggini elabora in un primo tempo una serie di
proposte concrete da portare sulle barricate: il lavoro giovanile, le
agevolazioni per gli immigrati di ritorno in Calabria, l’allontanamento
della Polizia dalla città, lo scioglimento delle istituzioni repressive.

Anche
loro probabilmente, in un primo tempo, scambiano l’insurrezione per
quel moto di piazza tanto atteso come gli anarchici situazionisti o i
marxisti-leninisti, o comunque tentano di indirizzare la rabbia della
popolazione, ma il tentativo fallisce. Gli anarchici si scontrano
contro una rivolta che non è più ormai- o forse non è mai stata- solo
un moto popolare, ma che contiene una serie di elementi politici non
facilmente individuabili. Sulle barricate sono arrivati in breve tempo
gli agitatori di destra, che si sono mescolati ai dimostranti. La
situazione è sfuggita di mano ai partiti eagli uomini politici, per
cadere sotto il controllo dei capipopolo.

Quando
Adriano Sofri, allora leader di Lotta Continua, giunge a Reggio per
convincere alcuni gruppi extraparlamentari e gli anarchici ad inserirsi
nella rivolta per poi pilotarla a sinistra, Casile, Scordo e il gruppo
anarchico rifiutano.

In agosto, in collaborazione
con la FAI, arriva da Roma una sofisticata macchina fotografica con la
quale gli anarchici iniziano un’inchiesta di controinformazione.
Casile, Scordo e Aricò documentano, attraverso quelle immagini, le
presenze neofasciste nella rivolta. Avanguardia Nazionale di Delle
Chiaie, Ordine Nuovo di Rauti e il fronte nazionale di Junio Valerio
Borghese avevano avuto, con il MSI, un peso determinante tramite gli
attivisti locali e quelli fatti arrivare appositamente da altre parti
d’Italia. Un rullino di foto scattate dagli anarchici durante i
disordini sparisce; Casile e Scordo vengono minacciati.

Il
clima è sempre più teso: ben presto accanto alle barricate inizia
l’offensiva del tritolo e degli attentati. Su questa nuova pista
iniziano a muoversi le indagini dei ragazzi: per loro i legami tra il
deragliamento del treno a Gioia Tauro, che non convince né per la
dinamica né per la fretta con il quale è stato archiviato, e la
presenza di elementi di estrema destra in città sono sempre più
evidenti. Iniziano, quindi, una vera e propria inchiesta di
controinformazione della quale nulla ci è rimasto se non la
testimonianza da essi fornita ad alcuni amici e familiari.

Un
altro episodio che vede al centro i ragazzi è la manifestazione che
questi organizzano in collaborazione con il pastore battista di Reggio,
Francesco Casanova, e con il pastore valdese Lupis di Messina, per
interporsi tra i dimostranti e la polizia.

La protesta si svolge sul Corso principale della città, teatro nei giorni più caldi della rivolta di assalti e sbarramenti.

Come ricorda Tonino Perna, cugino di Aricò:

Ho
partecipato il 7 settembre del ’70, assieme alla Chiesa evangelica di
Reggio, all’unica manifestazione pacifista di quel periodo, in cui
c’era scritto “Via la polizia da Reggio” e “Basta con la violenza”.
Sono arrivati i fascisti, e ci hanno rotto i cartelli, e c’è stata
questa scena bellissima che Angelo Casile veniva preso a schiaffi da un
noto fascista locale e diceva bravo, bravo, prendimi a schiaffi, così
fai il servizio dei padroni che ci vogliono dividere.

 

Santo
Ielo, leader della CGIL reggina, viene intervistato qualche mese dopo
la morte dei ragazzi per spiegare i moti da sinistra, e riporta le
parole scritte da Angelo Casile in un volantino:

 

“Padroni bastardi, del capoluogo non sappiamo che farcene!

Il
capoluogo va bene per i burocrati, gli speculatori, i parassiti, i
padroni e i politicanti più grossi; va bene per le manovre dei
caporioni locali, per il sindaco Battaglia e per i caporioni falliti.

Va
bene per il tentativo di questi “uomini importanti” di accrescere il
loro potere locale, la loro area di sfruttamento, facendoci sfogare
anni di malcontento con la falsa lotta per il capoluogo, dopo che hanno
mandato i nostri figli e i nostri fratelli a lavorare all’estero e
continuano a sfruttarci nella stessa Reggio

I
cosiddetti “datori di lavoro”, che in realtà sono luridi padroni, sono
i nostri nemici, quegli stessi che ci mandano allo sbaraglio per il
capoluogo, per la Madonna o per la squadra di calcio.

Il capoluogo non ci serve!Lottiamo per farla finita con l’emigrazione, con la disoccupazione, con la fame!

Nicola Ad elfi, «La Stampa», 16 luglio 1970

Giovanni Spadolini, «Il Corriere della Sera», 16 luglio 1970

«La Gazzetta del Sud», 18 luglio 1970

Francobaldo Chiocci, «Il Tempo», 21 luglio 1970

Sandro Osmani,«Il Messaggero», 19 luglio 1970

Gaetano Tumiani, «La Stampa», 31 luglio 1970

Alfonso Madeo, «Il Corriere della Sera», 1 agosto 1970

Franco Pierini, «Il Giorno», 1 agosto 1970

Cfr. capitolo successivo sulla strage del treno

 

“Il Quotidiano”, Dossier “Reggio Calabria 30 anni dopo”

Comunicato diffuso dal Comitato Unitario

Angelo Frignani, “Il Tempo”, 18 settembre 1970

 

Bruno Tucci, “Il Messaggero”, 18 settembre 1970

 

Egidio Sterpa, “Il Corriere della Sera”, 22 settembre 1970


In realtà la conclusione della rivolta di Reggio Calabria è da
stabilire nel febbraio 1971, quando il presidente del consiglio Emilio
Colombo annuncia che a Reggio Calabria sorgerà il V centro siderurgico
nazionale con un investimento di 3 mila miliardi di lire e oltre 10
mila posti di lavoro. La città e i reggini accettano la proposta e
mettono fine alle violenze.

Il racconto in queste
pagine si limita solo ai primi mesi della rivolta per due motivi: da un
lato furono i più significativi, dall’altro perché maggiormente
attinenti alla vicenda principale dei cinque anarchici.

Vittorio Cappelli, Politica e politici,in “Storia d’Italia – La Calabria”, Einaudi 1985

“Ben
grave è la posizione assunta dal Pci, che accusa il popolo di seguire i
fascisti, e che chiede all’infame governo Colombo una maggiore azione
repressiva. Così il governo colpisce i lavoratori in lotta mentre nel
resto d’Italia parecchi operai si trovano disorientati e non agiscono
in difesa del popolo di Reggio Calabria
( Manifesto stampato a Milano il 3 febbraio 1971 dall’Unione dei marxisti- leninisti)

Manifesto dell’Unione dei marxisti- leninisti, Milano 1971

Internazionale Situazionista, Gli operai d’Italia e la rivolta di Reggio Calabria

Gruppo Kronstadt, Sulla rivolta di Reggio

Alba meccanica

Lo avevamo precedentemente
dichiarato: dovremo abituarci a convivere con il terremoto. Solo che al
posto di scosse telluriche si tratta di irruzioni o invasioni di
"campo" DA PARTE DELLE FORZE DELL’ORDINE…
Questa mattina l’invasione degli "extraterrestri" (una ottantina tra
DIGOS-CELERE-E CC…) è avvenuta all’interno dell’area luzzi a
Pratolino. Un operazione richiesta e voluta dal ministero degli
interni. Ispettori di Polizia con telecamere, il solito scenario di
pedate alle porte, la consegna di quasi 170 documenti e permessi di
soggiorno. Alla fine deLLA BRILLANTE operazione il fermo di sei
migranti, equamente distribuiti in due romeni, due senegalesi e due
marocchini trasferiti in Questura per ulteriori accertamenti…
Una operazione che nasce nelle settimane precedenti. In particolare
dalla pesante richiesta di liberare l’area da parte del sindaco di
Sesto Fiorentino. Tre anni di guerra senza esclusione di colpi.
L’amministrazione comunale di Sesto ha spostato il muro di Berlino sul
monte Morello, perimetrando l’area geografica dalla vista dei nuovi
barbari dell’occupazione. Ha impedito materialmente l’iscrizione dei
bambini nelle scuole di Sesto Fiorentino, ha negato la concessione
delle residenze,ha impedito la raccolta differenziata per lo
smaltimento dei rifiuti, ha richiesto SEI volte l’immediato sgombero…
Non è importante per costoro che la maggioranza dela Comunità viva di
vita propria, di lavoro nei cantieri, di laboratori del riciclo, di
agricoltura biologica, la "malapianta va estirpata"…
Il Gianassi pensiero non è poi tanto diverso dal razzismo dominante
della Lega. La richiesta di intervento da parte del Ministro Degli
interni è il "SODALIZIO" di un pensiero comune.
Non ci stanchiamo però di aggiungere che dietro a tanto (troppo…)
livore si nasconda la mancata ASTA di un bene comune sul quale si
allungano le forti MANI DELLA SPECULAZIONE. E chissà che dietro a
questo clima da delirio si mascheri anche la rabbia contro la stessa
Regione Toscana che di recente ha dichiarato INCEDIBILE L’INTERA AREA…
Stanchi di vivere ogni mattina aspettando le forze dell’ordine nei nostri "territori"…
VENERDI’ 4 DICEMBRE ORE 10 SOTTO LA PREFETTURA E LA REGIONE TOSCANA,VIA CAVOUR (DUE IN UN COLPO SOLO) SFRATTI E SGOMBERI.
LA COMUNITA’ INTERETNICA DEL LUZZI – IL MOVIMENTO DI LOTTA PER LA CASA

P.S. -Consigliamo all’ingente e cospicuo numero di addetti alle
forze dell’ordine una pìù intelligente ed equa distribuzione delle
risorse e delle energie…Firenze non conosce ancora i mandanti della
strage di Via De’ Georgofili… ad esempio

Roma – Battiture a Regina Coeli per morti in carcere

onte: blitzquotidiano

I detenuti stanno effettuando la "battitura" delle sbarre in segno
di protesta per la morte di Simone La Penna, il detenuto affetto da
anoressia deceduto al centro clinico dell’istituto, per la vicenda di
Stefano Cucchi e per il sovraffollamento: le sezioni sono state subito
chiuse, mentre il personale della polizia penitenziaria che stava per
terminare l’orario di lavoro è stato trattenuto in turno.

Dalle 15,30 di venerdì 27 novembre, in quattro sezioni del carcere
romano di Regina Coeli i detenuti stanno effettuando la “battitura”
delle sbarre in segno di protesta per la morte di Simone La Penna, il
detenuto affetto da anoressia deceduto al centro clinico dell’istituto,
per la vicenda di Stefano Cucchi e per il sovraffollamento.
Lo fa
sapere all’Ansa il Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni
precisando che la protesta si sta svolgendo nella II, III, VII ed VIII
sezione.
Appena i detenuti hanno cominciato a battere oggetti
contro le porte e le inferriate delle celle, le sezioni sono state
subito chiuse, mentre il personale della polizia penitenziaria che
stava per terminare l’orario di lavoro è stato trattenuto in turno.


fonte: repubblica.it

Le sbarre tintinnano. No, le sbarre urlano. I detenuti di Regina
Coeli adottano la più classica e cinematografica delle forme di
protesta carceraria, percuotere le grate con oggetti di metallo, per
far sentire anche la loro voce in questi giorni in cui tutti sembrano
avere un motivo per scendere in strada a manifestare. Loro non possono
farlo, ma rompono il silenzio a modo loro. La protesta va in scena a
Regina Coeli, dove ieri è morto di anoressia Simone La Penna, 32 anni.
Un”altra morte tragica e assurda, che segue quella di Stefano Cucchi.
Storie arrivate nelle pagine di cronaca, storie che permettono ai
detenuti di denunciare le durissime condizioni di vita dietro le
sbarre, prima tra tutte il sovraffollamento. Le sezioni interessate
sono quattro, II III VII VIII, e, secondo quanto riferisce il garante
dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, sono state chiuse.

"Hanno fatto una battitura in quattro sezioni – spiega Marroni – è
il sintomo di un nervosismo e di un disagio che aumenta e che se non si
fa qualcosa aumenterà sempre di più. Le forze politiche, Parlamento e
Governo devono ragionare seriamente sul carcere. I morti in cella sono
aumentati, nel 2009 siamo già ben al di sopra dei dati dell”anno
scorso, sia come suicidi, che come morti naturali. Inoltre riguardo al
passaggio della sanità penitenziaria alle Regioni siamo ancora in mezzo
a un guado. E su tutto questo pesa il sovraffollamento che contribuisce
ad aumentare il disagio e a compromettere tutto il percorso
trattamentale, compreso quello sanitario, del detenuto".

Di diversa opinione il direttore di Regina Coeli, secondo cui "la
protesta è partita dall”VIII sezione, quella dei protetti" e per
questo è stata "poco seguita dagli altri detenuti". I "protetti" sono i
detenuti che vengono tenuti separati dagli altri perché hanno commesso
reati che nel mondo carcerario non sono ammessi, come la pedofilia o
l”aver tradito i propri complici. "La protesta è durata poco più di 30
minuti – aggiunge il direttore – ed è partita soprattutto da tre celle
dell”VIII sezione. Non mi sembra proprio che sia per la morte del
detenuto avvenuta ieri o per Cucchi, mi sembrava più per temi generici
come l”indulto, l”amnistia e in alcuni casi anche per istanze
personali".

Torino – Nuovo Fenix Occupato

Torino Sabato 28 Novembre 2009

Ieri pomeriggio
un gruppo di anarchici è salito sul tetto dell’ex facoltà di economia e
commercio, palazzone di 4 piani, situato in piazza Albarello, nel pieno
centro di Torino. Per almeno tre ore un gruppo di digos ed alcuni
uomini delle volanti hanno tentato di intralciare le "operazioni
d’occupazione". Ma intanto che passava il tempo, i numeri dei solidali,
invitati dalla radio e dal giro di sms ad accorrere sotto la palazzina,
aumentavano sempre di più, cosi che gli uomini della questura se ne son
tornati a casa…
E così è iniziata la festa con un concerto Hip
Hop, benefit Inguaiati G8 di Genova che gli occupanti del LOSTILE hanno
voluto fare proprio dentro il Nuovo Fenix, per dimostrare la loro
solidarietà alla nuova occupazione.
Questa sera, Domenica 29, ore 19:00 Assemblea aperta di gestione Fenix.

A seguire porta qualcosa da bere e da mangiare.

Il Barocchio questa domenica resterà chiuso.

Lunedì 30 Novembre ore 20 al Nuovo Fenix, Cena Chez Osvaldìn, Benefit Inguaiati coon la legge

Fenix Osservatorio Astronomico contro la repressione

Pistoia aggiornamenti di REPRESSIONE

Alessandro Della Malva  è stato trasferito dal carcere di Pistoia , dopo un presidio che ha favorito una "Bellaprotesta" all’interno del carcere e che è continuata anche il giorno successivo(!!), al carcere di  Prato, dopo una riunione x organizzare un’altro presidio, è stato subito spostato nel carcere di Parma!!

La compagna Katiuscia (compagna di Alessandro) sta subendo ripetutamente minacce da parte di esponenti della digos locale, ieri mattina l’ennesima intimidazione , al ritorno da una riunione a Firenze
è stata affiancata da un digossino all’interno di un negozio e gli è
stato più volte detto di non immischiarsi in certe cose e di lasciare
stare la lotta al fascismo
. Come potete capire la cosa è seria e inquietante , nei giorni passati ci sono state altre intimidazioni e una notte è stato provato a manomettere la porta di casa di Alessandro e Katiuscia

Mentre
il compagno anarchico Marco e Juri ,SENZA NESSUNA PROVA E SENZA ALCUNA
RAGIONE (SE NON QUELLA DI REPRIMERE I COMPAGNI +IMPEGNATI NELLA
LOTTA) sono sempre ai domiciliari in attessa di giudizio . . 

 Testo del volantino diffuso in centro a Pistoia  ieri 

L’ ACCANIMENTO REPRESSIVO
CONTRO GLI ANTIFASCISTI
NON SI PONE LIMITI

Sabato 21 novembre gli antifascisti pistoiesi organizzavano un Presidio sotto il carcere di Pistoia (esattamente nel giardino di via Donatori del sangue) in solidarietà di Alessandro della Malva, per ribadire l’ ILLEGITTIMITA’ e l’ABUSO subito da questo compagno detenuto dopo 40 giorni senza prove né indizi e pure senza alcun provvedimento di arresto, ma solo per un “Fermo giudiziario”.
Alla quattro ci siamo trovati nel giardino di via Donatori del sangue ed abbiamo fatto sentire ai detenuti musica e la nostra solidarietà, ad Alessandro ma anche a tutti i proletari detenuti in condizioni inumane, per il 40% detenuti ancora in attesa di giudizio (ipoteticamente INNOCENTI), detenuti per reati minori, per i quali sono previste misure alternative alla carcerazione.
Intorno alle ore 18.00 i detenuti si sono uniti alla nostra protesta con la forma unica che possiedono: battitura di tegami, posate, gavette, sbarre delle celle. E per una ora buona siamo andati avanti: loro a battere e noi a gridare tutta la nostra rabbia e la nostra
solidarietà.

La
RAPPRESAGLIA
per questa protesta dal carcere non
ha perso tempo  a colpire il
compagno Alessandro. Con un’azione punitiva ,che non trova alcuna giustificazione
etica e morale lunedi Alessandro è stato trasferito in  un’altro penitenziario.

L’azione repressiva contro questo
antifascista non ha alcun limite. Possiamo parlare a ragione di puro ACCANIMENTO
REPRESSIVO. Ed in questa operazione si trovano tutti ben uniti: magistratura,
questura prima e direzione carceraria adesso.

Dell’innocenza degli antifascisti,
contro cui l’11 ottobre è scattata un’operazione di RAPPRESAGLIA da parte della
questura di Pistoia che niente ha da invidiare alle SS di fosca
memoria.

RAPPRESAGLIA che è continuata il 9
dicembre con gli arresti domiciliari per altri 4 antifascisti senza alcuna
motivazione reale, se non quella di semplice volontà repressiva.

 

 

LIBERTà PER TUTTI GLI ANTIFASCISTI
INQUISITI L’11 OTTOBRE E IL 9 DICEMBRE

RITIRO DI TUTTE LE
DENUNCE

 

 

                                                                                 
RETE ANTIFASCISTA PISTOIESE

a presto aggiornamenti . .