A trentotto anni dalla morte di Pino Pinelli, la moglie Licia ritorna su quei giorni e sulle «giustificazioni» oggi di moda: «Mario Calabresi ha scritto un libro che, per difendere la memoria del padre, offende la nostra»
Francesco Barilli
Sergio Sinigaglia
Licia è una donna per nulla incline a sentimenti di vendetta, che ancora oggi chiede giustizia rifuggendo dai sensazionalismi e dal clamore mediatico. Vive ancora oggi a Milano e l’intervista si svolge a casa sua, il 14 gennaio 2008.
Volevamo chiederti qualcosa su quegli anni, sulla militanza di Pino. E sulla vostra vita a Milano, anche paragonandola con il contesto attuale.
Sono situazioni totalmente diverse, quasi impossibili da confrontare. Un tempo c’era un clima molto più aperto, mentre oggi si ha un’impressione di estraneità, di distacco fra le persone, persino fra chi abita nello stesso condominio. Già un dialogo, un livello minimo di conoscenza, è difficile; l’idea di darsi una mano è addirittura impossibile. A questo discorso si collega pure la militanza di Pino. Alcuni mesi prima di piazza Fontana, c’erano stati altri attentati (in diverse città italiane), e già in questi casi erano stati incolpati gli anarchici. Lui si era attivato subito dopo quelle prime accuse, cercando di portare aiuto. Ricordo gli scioperi della fame, lui che andava a portare da bere a chi era impegnato in iniziative di solidarietà. Spiegare cos’era Milano e la nostra vita è davvero difficile. Quel che voglio farvi capire è che se oggi i rapporti interpersonali si mantengono al minimo essenziale, all’epoca era diverso. All’epoca io battevo a macchina le tesi per diversi studenti, quindi casa nostra era sempre aperta e piena di ragazzi, ricordo la sensazione di avere sempre gente da noi. Quegli studenti venivano per le loro tesi, quindi anche in quel caso in teoria ci si poteva limitare a un rapporto «distaccato»; invece si finiva col parlare di tutto, anche e soprattutto di politica, perché pure quella faceva parte della vita, e il confronto era normale. È vero, erano tempi di conflittualità molto dura, ma c’era un atteggiamento aperto verso l’idea stessa di politica. Pino, poi, figuriamoci!… Non gli pareva vero di poter intavolare una discussione su quegli argomenti; appena entrava in casa e trovava uno di quei ragazzi gli diceva subito «Io sono un anarchico. Voi come la pensate?». Finiva spesso che io facevo da mangiare per tutti e con noi si fermavano anche quegli studenti. Era una vita allegra, malgrado le difficoltà, le bambine piccole, il suo stipendio bassissimo. Ecco, questo mi dispiace: mi chiedevate di Milano come città, e io oggi la ricordo buia, scura, quando ci penso la vedo d’inverno, il cielo coperto come oggi. Probabilmente perché il ricordo di Milano di quell’epoca lo associo e si sovrappone proprio a quei giorni di dicembre 1969. (…)
Dobbiamo chiederti «del fatto». Tu come e quando ne vieni a conoscenza?
Dobbiamo fare un passo indietro, prima di parlare della notte del 15 dicembre. Dobbiamo partire dal 12, dal giorno di piazza Fontana. Pino viene invitato in questura, non viene arrestato. Addirittura segue l’invito accodandosi all’auto della polizia col suo motorino, senza nessuna coercizione. Nessuno mi telefona per dirmi che Pino è stato chiamato in questura, lo vengo a sapere qualche ora dopo, quando la polizia viene a casa nostra per una perquisizione. In quel momento io non solo non sapevo che mio marito era in questura, ma non ero a conoscenza nemmeno della bomba alla Banca dell’agricoltura, semplicemente perché avevo il televisore rotto e non avevo sentito i notiziari; per cui anche la perquisizione mi capita come una cosa strana, scioccante… Ricordo i poliziotti che rovistavano per casa, probabilmente alla ricerca di qualcosa di compromettente, e sono finiti con lo scartabellare fra le tesi (i ragazzi spesso me ne lasciavano una copia per ricordo, una volta finita). Fra questi lavori ce n’era uno che attirò l’attenzione dei poliziotti. Adesso non saprei dirti con sicurezza di cosa si trattasse: forse era sulla rivoluzione francese, oppure sull’epoca in cui c’era stata una rivolta contro lo Stato Pontificio nelle Marche, qualcosa del genere… Sta di fatto che gli agenti all’inizio pensavano di aver trovato chissà quale documento rivoluzionario! Spiegai che era una tesi, che io le battevo a macchina per lavoro, e uno di loro mi chiese «ma lei lavora per hobby o per bisogno?». Credo d’averlo guardato con ben poco rispetto: a quell’epoca, coi pochi soldi che giravano, uno lavorava proprio per hobby!… Ecco, ho questo ricordo della perquisizione: io che continuo a brontolare mentre i poliziotti giravano per casa. Poi, ancora più tardi, arrivò la telefonata di Pino: mi disse solo che era in questura, c’era tanta gente e avrebbe tardato. Anche se era un momento drammatico, non fu una telefonata allarmante, ma rassicurante.
Tu riuscisti a vederlo, in quei giorni?
No, però ci riuscì mia suocera il giorno dopo, il 13 o forse il 14. Dopo la perquisizione, o dopo la telefonata di mio marito, l’avevo chiamata, le avevo spiegato la situazione. Tra l’altro proprio il 12 Pino aveva appena ritirato la tredicesima, per cui lei andò di persona in questura a farsela consegnare. Era anche un modo per vederlo ed essere rassicurate.
Licia, scusa la domanda, ma con tutto quello che è accaduto, negli anni successivi ti è mai venuto di pensare che la sua attività politica era la causa di quanto vi era successo? Hai mai pensato (irrazionalmente, magari) a una sorta di «rimprovero» verso tuo marito?
No. Esiste il libero arbitrio… Capisco quel che volete dire, ma direi di no, non ho mai avuto quel pensiero. Vedi, per spiegarti bene questo aspetto devo fare un passo indietro nel tempo. C’è stato un momento, prima della militanza di Pino (prima della «militanza attiva», intendo, visto che lui comunque era ed è sempre stato anarchico), in cui avevamo le due bambine piccole, io avevo mille lavoretti, le tesi eccetera, e Pino sembrava dibattersi in quella casa che sembrava così stretta. Io allora lo incitavo a trovarsi degli interessi al di fuori della vita familiare. Gli dissi «perché non vai dagli esperantisti, perché non riallacci quei rapporti?», visto che noi ci eravamo conosciuti nel ’52, proprio a scuola di esperanto, e ricordavamo quell’ambiente come una bella esperienza. Lui accolse il mio consiglio… Solo che, invece di andare dagli amici di esperanto, andò a trovare gli anarchici del circolo. Scelse la sua passione più vera, la politica: come potrei rimproverarlo, anche irrazionalmente? No, non posso parlare di sue colpe, né di miei ripensamenti sulle sue scelte.
La notte fra il 15 e il 16 dicembre, che Pino è precipitato dalla finestra lo vieni a sapere dai giornalisti…
Sì, vengono a bussare da me verso l’una. Io, le bambine e mia suocera eravamo già a letto. Te lo dico perché in seguito ci fu persino chi disse che dormivo con un amante. Non è una cosa poi così strana: se devi infangare una vittima è meglio infangare anche i suoi parenti… Comunque sono andata ad aprire e ho trovato questi due giornalisti. Sembravano affannati, dopo 4 piani di scale senza ascensore, e soprattutto davano l’impressione di farsi forza l’un altro, cercavano le parole per dirmelo: «sembra che suo marito sia caduto da una finestra». Gli chiusi la porta in faccia e mi precipitai a telefonare alla questura. Chiesi di Calabresi e me lo passarono. Dissi che c’erano due giornalisti alla mia porta, gli riferii cosa m’avevano detto, chiesi perché non m’avevano avvertito. «Sa, signora, noi abbiamo molto da fare», mi rispose… Non so se gli ho detto ancora qualcosa, sicuramente gli ho sbattuto la cornetta in faccia. Dalla questura non seppi nulla: mentre Pino era all’ospedale, invece di chiamarci loro avevano indetto la famosa conferenza stampa… Mia suocera si vestì e si precipitò all’ospedale, al Fatebenefratelli. Io dovevo aspettare, c’erano le bambine da guardare, non avevo altra scelta. A tanti anni di distanza i ricordi sono confusi, ma rammento bene mia suocera, alla sua età e senza una lira in tasca, precipitarsi in piena notte all’ospedale, dove nessuno le dice nulla, dove non le fanno nemmeno vedere il figlio. Mi telefonò dall’ospedale, dicendomi che c’era un sacco di polizia e non la facevano passare. Poi mi disse «non so cosa sta succedendo, ma temo che…». Aveva capito che era morto perché aveva visto un inserviente tirare fuori i moduli.
La tua reazione quale fu?
Dopo un po’ ero riuscita a far portare via le bambine, che si fecero svegliare e vestire senza dire nulla. Sempre quella notte, o poco più tardi, arrivarono a casa mia Camilla Cederna, Stajano, un dottore dell’università cattolica per cui avevo lavorato (che sulla vicenda in seguito scrisse un lungo articolo sull’ Europeo ), e qualcun altro ancora. Ad un certo punto non ce la facevo più a stare in quella stanza, volevo andarmene da sola in camera. Mi venne dietro mia suocera. Mi disse: «Vedrà, domani daranno a lui la colpa di tutto». «Va bene», risposi, «ma ci siamo anche noi, con cui dovranno fare i conti». Il giorno successivo, in tribunale, ricordo i capannelli di gente… C’era davvero tantissima gente, la strage di piazza Fontana e la morte di Pino avevano destato uno scalpore enorme. C’erano dei giovani avvocati, che chiedevano (loro a me…) cosa si poteva fare. «Denunciare tutti quelli che erano in quella stanza», rispondevo. E da lì comincia tutta la storia delle varie istruttorie, che è finita come sai…
Licia, tu hai letto il libro di Mario Calabresi (figlio del commissario), «Spingendo la notte più in là»?
No. Non voglio leggerlo, non m’interessa. Non potrei mai riconoscermi in quel testo. A volte penso che c’è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto. Ma così, con tutto quello che è successo, no. C’è una distinzione netta, fra noi. Io ho avuto la netta impressione che Calabresi eviti di affrontare la storia di Pino, se non di striscio, e questo mi ha dato fastidio. Capisco l’esigenza di difendere la memoria del padre, però penso che con quell’operazione si neghino almeno due fatti: in primo luogo che le due vicende, piaccia o meno, sono strettamente collegate; in secondo luogo che, indipendentemente dalle implicazioni sul fatto in sé, sul commissario gravano comunque responsabilità «sul dopo», sulle menzogne che raccontarono, il «Pinelli gravemente indiziato»… Direi non solo sul dopo: ricordiamo che Calabresi era titolare dell’ufficio da cui cadde mio marito. Dunque, indipendentemente dalla sua presenza, la responsabilità, anche diretta, c’era. Poi viene il resto, le menzogne su Pino gravemente indiziato eccetera… Tornando sulla presenza o meno di Calabresi nella stanza, non voglio riaprire polemiche, ma mi sembra giusto ricordare che uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti, sostenne di non aver visto Calabresi uscire dalla sua stanza prima che Pino cadesse, e successivamente confermò sempre la stessa versione: non solo non aveva visto Calabresi uscire dalla stanza, ma affermò pure che (considerata la posizione che occupava nel corridoio) avrebbe senz’altro notato se il commissario fosse uscito. Quella dichiarazione la sostenne di fronte alla magistratura, ma non fu mai chiamato a deporre nuovamente davanti a D’Ambrosio, mi disse, nel corso dell’istruttoria decisiva.
Tornando alle menzogne successive alla morte di Pino, alla sentenza D’Ambrosio almeno una cosa bisogna riconoscerla: esclude che Pino si sia suicidato, quindi conferma che tutti quelli che erano nella stanza e dichiararono il contrario mentirono. I 4 poliziotti e il carabiniere presenti hanno avuto conseguenze?
Che io sappia no, la storia si è chiusa così. Anzi, per quanto ho saputo alcuni, se non tutti, sono stati promossi. Quando succede un fatto del genere, che vede coinvolti elementi delle forze dell’ordine, alla fine oltre a non arrivare alla verità si finisce con le promozioni. Lo stiamo vedendo anche oggi, per i fatti di Genova.
Negli anni successivi, hai mai avuto altre notizie, anche da fonti «strane» (voci, telefonate dei soliti «bene informati») che ti facessero pensare di poter essere vicina a una nuova svolta?
Una volta mi arrivò una lettera anonima di questo tipo. La consegnai all’avvocato Carlo Smuraglia, ma non ne facemmo nulla, era una cosa totalmente delirante.
Sono passati 38 anni da quei giorni, ma ne sono passati anche 25 da quando hai raccontato la tua storia a Piero Scaramucci in «Una storia quasi soltanto mia». È cambiato qualcosa nella tua opinione circa lo svolgimento dei fatti?
Quello che penso sia successo lo raccontai innanzitutto al magistrato e te lo confermo ora. È difficile da spiegare, ma si tratta di una convinzione talmente radicata in me che la sento come si trattasse di un avvenimento accaduto con me presente; se ci penso è come se io fossi stata lì, in quella stanza. Quando sono stata interrogata da Bianchi d’Espinosa (procuratore generale a Milano, che poi assegnò il fascicolo a D’Ambrosio) mi chiese proprio quale opinione mi fossi fatta sull’accaduto, e la stessa domanda in seguito me la pose lo stesso D’Ambrosio. Risposi molto semplicemente, come rispondo a voi ora: l’hanno picchiato, creduto morto e buttato giù; oppure l’hanno colpito al termine dell’interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure che dei 5 agenti solo uno (il carabiniere) si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta ancora oggi. Alla tesi del suicidio, poi, non ho mai creduto. Pino non l’avrebbe mai fatto, era un’eventualità che non ammetteva. Una volta avevamo parlato di una ragazza che conoscevamo, che aveva tentato il suicidio, e lui era stravolto. Non era una scelta che concepiva, amava la vita, non l’avrebbe mai fatto.