Impediamo la costruzione della base di Mattarello Appello agli anarchici, ai libertari, agli antimilitaristi

Introduzione

 

Sull’importanza e
la necessità di rilanciare la lotta antimilitarista in Italia non
crediamo ci siano dubbi. L’esercito italiano ha le proprie truppe
dislocate in ventuno paesi del mondo, il territorio in cui viviamo è
letteralmente cosparso di servitù militari (basi NATO, USA, europee,
italiane, postazioni radar, sottomarini nucleari, centri di ricerca,
fabbriche di armamenti, ecc.), l’industria bellica italiana
(Finmeccanica in testa) fornisce le proprie micidiali armi agli
eserciti e alle polizie di mezzo mondo, e ci stanno abituando ad una
crescente presenza di militari nelle città. Alla guerra esterna
corrisponde (economicamente e socialmente) la guerra interna:
condizioni di vita e di lavoro imposte sempre più con il terrore,
militarizzazione preventiva dei territori, repressione del dissenso.
Gli stessi dispositivi razzisti (deportazione di migranti, lager,
aumento delle pene per i clandestini, legalizzazione delle ronde, ecc.)
non sono separabili dal fatto che siamo in guerra. Operazioni
neocoloniali, propaganda nazionalista, aggressioni fasciste, razzismo
democratico, esercito nelle strade e rilancio del programma nucleare
sono le meraviglie prodotte da un mondo che ci vuole portare – in righe ben allineate – verso l’abisso.

Sappiamo tutti
quali sono stati i limiti delle mobilitazioni contro le varie guerre
(pensiamo anche alle recenti manifestazioni contro i massacri di Gaza):
la macchina bellica non è stata inceppata. Avvicinare geograficamente e
socialmente il problema della guerra, dando al militarismo nome,
cognome e indirizzo (e agendo di conseguenza), è il solo modo per
spezzare la complicità con i signori dello sfruttamento e della morte.

Il progetto di costruire una base militare a sud di Trento è, da questo punto di vista, una iattura ma anche un’occasione: quella di una lotta senza compromessi contro gli ingranaggi della guerra.

Riuscire ad
impedire la costruzione di una base di morte (o, più modestamente,
provarci con tutte le proprie possibilità) avrebbe una ricaduta
positiva per tutti i compagni, non solo per noi.

La china
istituzionale del movimento di Vicenza – che ha portato quella che
poteva essere forse la lotta più importante che c’era in Italia ad
arrancare, dopo le manifestazioni internazionali, in una protesta
democratica locale che, così com’è, non può avere sbocchi – è lì a
dimostrare almeno due cose. Primo, che collaborando con le istituzioni
non si ferma nessuna base. Secondo, che una critica pratica
ai metodi istituzionali (intendendo per critica pratica la volontà
caparbia di provare ad inceppare concretamente il militarismo, con
altre prospettive e altri mezzi) dovrebbe essere un desiderio e un
impegno per chiunque si batta contro lo Stato e il capitale.

Siamo convinti che
il movimento anarchico, libertario e antimilitarista reale abbia
potenzialità inespresse. Che non stiamo facendo, per dirla più
semplicemente, tutto quello che potremmo.

Nelle note che
seguono illustreremo il progetto della base militare di Mattarello,
racconteremo quello che abbiamo fatto finora e quello che vorremmo fare
in futuro.

Diciamo fin da
subito che le condizioni in Trentino per una lotta di massa contro la
base di Mattarello non sono granché favorevoli, per ragioni che
spiegheremo. Non ci facciamo illusioni al riguardo. Pensiamo però che,
quale che sia il coinvolgimento raggiunto, sia necessario farsi carico
in prima persona di ciò che si sostiene. Chissà poi che, vedendo degli
individui che si battono con un minimo di capacità, anche chi è stato
alla finestra finora non decida di partecipare alla lotta.

Provare ad impedire
la costruzione di una base militare è probabilmente il progetto più
ambizioso e difficile con cui ci siamo confrontati. Per questo è molto
prezioso il contributo (di critica, stimolo, suggerimento) di altri
compagni. Questa avventura non la possiamo tentare da soli. Come
chiariremo meglio più avanti, siamo disponibili a presentare questa
lotta nelle varie città e situazioni in cui siano presenti compagni
interessati: per riflettere assieme, per costruire una solidarietà
attiva, per capire come intrecciare le varie lotte locali con la
questione della base di Mattarello e della guerra.

 

Non vogliamo essere complici di strutture di repressione e di morte: ecco tutto. Non abbiamo garanzie, pronti a ripetere a fine partita
ciò che un ribelle francese disse ai propri giudici: “Le nostre
disfatte non provano niente se non il fatto che eravamo troppo pochi
per resistere all’infamia”. Continua a leggere

Documento sulla crisi redatto dai militanti dell’ U.S.I.

Ecco un documento scritto qualche tempo fa dai compagni dell’U.S.I Liguria sulla crisi che sta arrivando e che già in parte si fa sentire (ma "il bello" ha ancora da venire); "in chiaro" pubblichiamo la premessa, chi fosse interessato a leggere tutto lo scritto può scaricarlo cliccando il link poco sotto.
 
PREMESSA
Le avvisaglie per una fase di aspro scontro sul piano sociale e sindacale sembrano esserci tutte. Dopo la spallata di luglio con il decreto Brunetta, che prefigurava un pesante attacco ai lavoratori pubblici e altrettanto pesanti tagli ai servizi, i proconsoli di Berlusconi si sono messi tutti attivamente all’opera.
Ultima, ma non per la gravità del suo intervento, la ministra Gelmini: dal punto di vista occupazionale verranno infatti tagliati 70mila posti di insegnanti e 43mila di ATA che sommati ai 47mila della Finanziaria- Prodi danno un totale di 160 mila posti in meno; per quanto riguarda le risorse è previsto un taglio di 8 miliardi di Euro per i finanziamenti delle scuole pubbliche nei prossimi 4 anni, il taglio dei fondi alle università (con il progetto della loro privatizzazione) e infine per quanto riguarda la qualità del servizio c’è il ritorno al maestro unico alle elementari. Poco da commentare, i numeri parlano da soli, se non rilevare l’ennesimo regalo all’istruzione privata.
C’è stata poi la questione Alitalia, dove sono saltati migliaia di posti di lavoro e tagliati gli stipendi dei lavoratori, con tutto il suo corollario di vicende apparentemente surreali, ma molto materialmente interpretabili: dall’esplodere della crisi, alla trattativa con Air-France per finire alla cordata di imprenditori italiani che rilevano la parte sana della compagnia di bandiera. In tutto questo campeggia la drammaticità della situazione dei lavoratori: gli esuberi, il taglio degli stipendi (30-40%), l’aumento degli orari di lavoro, ecc.
Infine, è entrato in campo il ministro Sacconi con un progetto di decreto di legge che tende a limitare ancora di più l’esercizio degli scioperi nei servizi.
Siamo dunque di fronte ad un quadro assolutamente devastante, che si situa in un contesto internazionale colpito dalla crisi finanziaria, dal crollo delle borse e dalla conseguente crisi economica e produttiva.
Al di là della drammaticità della situazione internazionale, della quale non è facile prevedere gli sviluppi e l’impatto che avrà sulla nostra situazione, vengono spontanee alcune riflessioni: -l rapporto finanza- economia reale non è totale, tuttavia le crisi finanziarie si traducono inevitabilmente in crisi generali. Anche in questo caso gli effetti del crack finanziario, in particolare la crisi di liquidità e la stretta creditizia si sono riversate su un’economia già in fase depressiva e ne hanno amplificato la tendenza ad una vera e propria profonda recessione. Questo negli USA, come in
Europa e, potenzialmente, nel resto del mondo, compreso gli iper-produttivi giganti asiatici (India e Cina).
– il liberismo selvaggio si è suicidato. Le teorie della libera iniziativa e del libero mercato come unici regolatori dell’economia mostrano tutti i loro limiti e la loro impotenza ad arginare le crisi cicliche del capitalismo. Si ricorre perciò alle nazionalizzazioni e all’intervento diretto dello Stato nell’economia, che sembravano ormai solo un retaggio del socialismo reale. Il capitalismo però sopravvive… alla faccia di quelli che vedevano nel neoliberismo il nemico assoluto e non c’è motivo di pensare che diventerà più “umano”.
– la mondializzazione mostra – in negativo – tutte le sue potenzialità di volano di crisi devastanti. Alla
libera circolazione delle merci si possono opporre dazi protettivi; a quella degli uomini, confini militarizzati, a quella della forza-lavoro, leggi; a quella dei capitali, regole; ma a quella delle crisi nulla si può opporre… vera e propria merce virtuale globale, viene esportata in abbondanza.
Se questo è quanto, oltre all’ovvio riconoscimento della necessità di una immediata e radicale risposta da parte della working class a livello internazionale, ci sembra anche importante rafforzare il nostro patrimonio di conoscenze, le nostre armi critiche e i nostri strumenti analitici, ovvero ottenere la massima chiarezza possibile sulle dinamiche e gli sviluppi che hanno portato alla situazione attuale.
A questo scopo pubblichiamo nel seguito due scritti del compagno R.S. di Torino, militante del sindacalismo di base, che da anni si occupa con impegno e competenza di questioni che l’opinione comune relega all’attività di “esperti” e “specialisti” di parte.
 

Vedova Pinelli: Calabresi, mai creduto alla colpevolezza di Sofri

Mio marito ucciso in questura: e’ una ferita che va riparata’

Roma, 15 gen. (Apcom) – L’anarchico Pino Pinelli è stato ucciso in
questura e dell’omicidio del commissario Calabresi non è colpevole
Adriano Sofri. A ribadire le sue convinzioni, a quasi quarant’anni di
distanza da quei tragici episodi, è la vedova di Pinelli, Licia
Rognini, intervistata dall’Espresso per commentare il libro di Adriano
Sofri sull’assassinio del commissario Calabresi. "L’ho detto anche ai
giudici che me l’hanno chiesto, ne sono così convinta – dice – che è
come se l’avessi visto con i miei occhi. L’hanno colpito, l’hanno
creduto morto e l’hanno fatto volare dalla finestra. Solo qualcuno che
era in quella stanza può raccontare la verità, non ho mai smesso di
sperarlo".

Alla domanda se pensi che suo marito, che era stato arrestato come
indiziato della strage di piazza Fontana, abbia cercato di dire
qualcosa prima di morire, la vedova risponde: "Non ne ho nessuna prova.
Quel che so è che non hanno lasciato entrare nella stanza mia suocera,
che era corsa in ospedale mentre io portavo le bambine a casa di amici.
Finché Pino non è morto, vicino al suo letto ci sono stati i
poliziotti. Solo quando tutto è finito hanno aperto la porta".

"La morte di mio marito, a 40 anni di distanza, è una ferita aperta,
un’ingiustizia – dice la signora Rognini – che deve essere riparata".
Secondo la vedova Pinelli "sono troppe le bugie di quei processi, le
contraddizioni fra Caizzi, il primo giudice che archivia il fatto come
morte accidentale, il giudice Amati che parla di suicidio e D’Ambrosio
che conclude per il ‘malore attivo’. Non posso credere che questa
tragedia sia sepolta senza una verità".

Quanto a Sofri, che è stato condannato per l’omicidio Calabresi dopo
una lunga serie di procedimenti, ha sempre negato la sua colpevolezza e
nel suo ultimo libro ammette una responsabilità ‘politica’ per la
campagna contro il funzionario di polizia che all’eopca fu ritenuto da
molti responsabile della fine di Pinelli, "non ho mai creduto – dice
Licia Rognini – alla colpevolezza di Sofri e dei suoi compagni, neanche
come ispiratori di quel delitto. E’ mia convinzione che i responsabili
vadano cercati altrove. So che è un’opinione poco condivisa, ma credo
che Calabresi sia stato ammazzato perché non potesse più parlare, come
tanti altri che avevano avuto a che fare con la strage di piazza
Fontana".

Un’inchiesta sullo squadrismo a Lucca dopo l’arresto a Sofia del leader fascista Andrea Palmeri

 Tratto da senza soste.it:

E’
incredibile (ma solo fino a un certo punto) che la stragrande maggioranza dei
144 tifosi italiani al seguito della nazionale fossero, malgrado il biglietto
nominale, pregiudicati per reati di stampo fascista o razzista o semplicemente
diffidati.

Tra
gli arrestati nientemeno che Andrea Palmeri (in foto), 29 anni, capo
del gruppo
ultras dei Bulldog Lucca. Già condannato in primo grado a un anno e
mezzo per
il pestaggio di un giovane appartentente a collettivi antagonisti con
una sentenza di colpevolezza che aveva escluso le circostanze
aggravanti ritenute cardine dell’accusa e poi scarcerato per decorrenza
dei
termini della carcerazione preventiva dopo sette mesi, Palmeri, figlio
di un medico molto influente in città,
continua a girare indisturbato per Lucca facendo esattamente ciò che
faceva prima di essere arrestato.

Tornando
alla cronaca, Palmeri sarebbe stato fermato dalla polizia bulgara in seguito ai
disordini avvenuti sugli spalti dello stadio di Sofia prima della partita di
calcio Bulgaria-Italia. "Sotto l’aspetto penale – minimizza il suo legale,
Alberta Cagnacci – nessun problema visto che il saluto romano in Bulgaria non è
reato".

Andrea
Palmeri e i suoi scagnozzi

Gli inquirenti che, dopo anni di pestaggi e violenze di ogni
tipo, si sono visti costretti a lavorare sullo squadrismo nazifascista a Lucca
dopo che alcune vicende sono balzate agli onori delle cronache nazionali,
ricostruendo la struttura dell’organizzazione non bulldog_sequestro.jpghanno avuto dubbi: Andrea
Palmeri ne è il capo, anzi, il "Generalissimo", come veniva
soprannominato il dittatore spagnolo Francisco Franco. "Dalle indagini
emerge tutto il suo carisma", hanno più volte detto gli inquirenti. Una struttura verticistica, quasi
militare, con un codice d’onore che impone la solidarietà tra gli aderenti
(specie se detenuti o diffidati), l’assoluta omertà, l’assidua frequentazione,
l’azione violenta e determinata soprattutto contro i comunisti, i traditori
("gli infami") e i migranti. A bordo di auto sono soliti pattugliare
le strade cittadine e fare i "giustizieri della notte".
Colpito da "diffida" (adesso anche da daspo internazionale dopo i fatti
di Sofia),
non è solito impegnarsi direttamente nelle azioni cruente, come
interventi in
curva, spedizioni punitive, aggressioni. Ma è lui – sostiene la procura
– a
dare ordini, a stabilire cosa si deve fare e cosa non si deve fare. Già
simpatizzante del movimento Forza Nuova, recentemente sembra aver
seguito
il vento confluendo nel Movimento Sociale Fiamma Tricolore, in favore
del quale
ha organizzato in provincia diverse iniziative impegnandosi nella
campagna del
cosiddetto "Mutuo Sociale".

Per gli
inquirenti, e secondo anche quanto riportato da Il Tirreno cronaca di
Lucca già il 21 settembre 2007, sotto Palmeri ci sarebbe Andrea Di
Vecchio, 20 anni, residente all’Arancio. È
soprannominato "Francuccio" o "Capo" e secondo la procura
sarebbe attivista di Forza Nuova. Ha assunto il ruolo di coordinatore
dei
Bulldog dopo che il Tar della Toscana, per vizi procedurali, aveva
annullato il
Daspo del 24 settembre 2006 (partita Pisa-Lucchese). Ci sono poi Daniel
Fratello, 28 anni, nei cui confronti gli inquirenti
evidenziano una serie di reati in ambito sportivo (invasione di campo,
lancio
di oggetti) e inerenti la discriminazione razziale, e Andrea Vanni, 36
anni. Palmeri li indica (Fratello in
un’intercettazione telefonica) come le persone più idonee "a tirare
avanti il gruppo all’interno della curva". Luigi Marotta, 22 anni,
detto "Gigi la Trottola",
all’interno dell’organizzazione era invece delegato alla raccolta dei fondi per
gli arrestati. C’è poi Stefano Vannucci, l’intestatario della scheda Sim
utilizzata da Palmeri e sottoposta ad intercettazione telefonica.

Sempre secondo Il Tirreno, sullo stesso piano ci sarebbero poi i vari
esecutori degli ordini impartiti dal
Generalissimo: da Francesco Preziuso, detto Cicogna, a Giacomo Baroni;
da Mirko
Santucci a Davide Giovannetti; da Lorenzo Pucci, detto Toffolo o Tozzo,
sino a
Francesco Venturini, Alessandro Frediani, Adam Alexander Mossa,
Alessandro
Bastone, Gabriele Bianchi, Matteo Frangioni detto Brioche, Alberto Del
Bianco
soprannominato Albertazzi, Federico Mecca e un Cantini che di nome fa
nientemeno che Junio Valerio, come il Borghese che tentò il colpo di
stato in Italia, responsabile della vendita dei gadget dei Bulldog.
Senza dimenticare gli altri due condannati che sono stati condannati
insieme a Palmeri: Alfredo
Franceschini, 43 anni, per lui un anno e mezzo di reclusione, e Daniele
Benedetti, di 26 anni, condannato a 8 mesi.

L’attività investigativa della Digos sarebbe iniziata nell’estate 2006.
Nel novembre 2006 arriva in procura la prima informativa
e l’8 gennaio 2007 il gip autorizza le prime intercettazioni.
Prima telefoniche, più tardi ambientali con una microspia inserita
nella Seat Cordoba di Palmeri. Alcuni compagni antagonisti vengono
fatti oggetto di atti di teppismo. Ma la chiave di volta dell’indagine
è l’aggressione a un altro compagno, inseguito in auto, fatto sbandare
e poi
massacrato, tanti contro uno, con calci, pugni e colpi di cinghia. I
telefoni di alcuni
Bulldog sono sotto controllo e alle 4 del mattino, qualche ora dopo
l’aggressione, sempre secondo quanto già riportato da alcuni media
locali Francesco Preziuso, uno dei partecipanti
all’aggressione, chiama Palmeri e
confessa che il gruppo "ha combinato un gran casino". I Bulldog (come
ricostruiscono le intercettazioni) si riuniscono immediatamente a casa
di Alessandro Bartone – altro componente del “commando” (oggi non più
residente a Lucca) che poi rivelerà tutti i particolari della vicenda
agli inquirenti – per discutere sul da farsi. Nelle successive 48 ore
s’incontreranno altre due volte, una in un locale pubblico. A settembre
2007 scattano le ordinanze di custodia cautelare in carcere e agli
arresti domiciliari.

Dalla città allo stadio

Secondo la procura della Repubblica sarebbero dieci le occasioni che hanno
portato i Bulldog, dal 28 novembre 2004 sino al 25 marzo 2007, all’assoluta
egemonia prima in curva Ovest e poi in tutto lo stadio. Una lunga serie di
minacce e aggressionbulldog_curva.jpgi che hanno costretto altri due gruppi ultras (Tori
Flesciati e Fedayn) prima a spostarsi in gradinata e poi a sciogliersi.
Lumezzane – Lucchese. E’ il 28 novembre 2004. I filmati in possesso
della Digos parlano chiaro. Nel settore riservato agli ultras della Lucchese
avvengono scontri tra tifosi. Da una parte i “Bulldog Lucca 1998” dall’altra i “Fedayn”.
La rissa segna l’inizio dell’era Bulldog.
Presentazione della Lucchese 2006-2007. 13 13 luglio 2006. Daniele Di
Piazza – conosciuto come “Il Porcarese”, sentito come persona informata dei
fatti – si reca al Porta Elisa per esporre lo striscione del club Cuore
Rossonero. Secondo la procura, Andrea Palmeri, capo incontrastato dei Bulldog,
gli fa capire che in quella sola occasione avrebbe potuto esporre lo striscione
in curva Ovest. Per gli altri lo spazio riservato era solo la tribuna centrale
o la gradinata.
Memorial Scoglio. Il 14 agosto una decina di Bulldog s’incontrano con
alcuni rappresentanti dei Tori Flesciati e degli altri gruppi ultras sulle
modalità con cui sarebbero stati esposti gli striscioni. Dalle parole si passa
alle vie di fatto. Calci, pugni, manate in faccia. I Bulldog sono di più e
hanno la meglio. I Tori Flesciati decidono di sciogliersi.
Pisa – Lucchese. È il 24 settembre 2006. Un esponente dei Tori Flesciati
appende alla barriera una maglietta con l’effige del “Che”. Due Bulldog impongono
di toglierla e quando in difesa arriva un altro supporter viene circondato e
colpito da un pugno in faccia.
Grosseto – Lucchese. 8 ottobre. Al casello Lucca-Est viene controllo il
pullman organizzato dai Bulldog. Occultati sotto i sedili i poliziotti trovano
di tutto: tondini di ferro, mazze da baseball. Inizialmente si prende la
responsabilità Giacomo Baroni. Ma il giorno successivo la paternità del
ritrovamento se l’attribuisce Adam Alexander Mossa. Per la Digos la decisione venne
presa da Palmeri.
Sassuolo – Lucchese. 15 ottobre. A Giglio di Reggio Emilia, Simone
Innocenti, leader dei Fedayn, alla guida dei cori dei tifosi lucchesi viene
fatto allontanare su ordine dal diffidato Palmeri che, stando alla Digos, da
fuori dallo stadio telefonicamente aveva ordinato a Baroni di cacciare l’ultras
ritenuto infame.
Padova – Lucchese. Al termine della sfida (5 novembre 2006) qualche
ultras entra in campo per avere una maglia dei giocatori rossoneri. Ma uno di
loro – stando alla Digos – viene preso a pugni da Palmeri.
Lucchese – Ravenna. Gara di Coppa dell’8 novembre. Palmeri viene filmato
mentre si rivolge con prepotenza a uno steward pretendendo che un tifoso dei
Bulldog, sprovvisto di biglietto, abbia accesso libero.
Pizzighettone – Lucchese. 19 novembre 2006. Nel furgone dei dai Bulldog
viene trovato dalla polizia uno scalpello, sequestrato. Nel furgone c’è Palmeri
con altri cinque Bulldog.
Lucchese – Padova. Al termine della sfida del 25 marzo 2007 una
delegazione di 10 tifosi, d’accordo con la società, viene fatta entrare negli
spogliatoi per un confronto con i giocatori. Il difensore Luca Ceccarelli dice
alla Digos che i tifosi avevano un «atteggiamento nervoso e concitato: due di
loro mi criticavano aspramente sostenendo di averli mandati a quel paese».

Per Senza Soste, Tito Sommartino

STRANO VOLO DI UN ANARCHICO – LA MEMORIA DI LICIA PINELLI: «PINO, VITTIMA DI CALABRESI»

Dal Manifesto:

 A trentotto anni dalla morte di Pino Pinelli, la moglie Licia ritorna su quei giorni e sulle «giustificazioni» oggi di moda: «Mario Calabresi ha scritto un libro che, per difendere la memoria del padre, offende la nostra»
Francesco Barilli
Sergio Sinigaglia

Licia è una donna per nulla incline a sentimenti di vendetta, che ancora oggi chiede giustizia rifuggendo dai sensazionalismi e dal clamore mediatico. Vive ancora oggi a Milano e l’intervista si svolge a casa sua, il 14 gennaio 2008.
Volevamo chiederti qualcosa su quegli anni, sulla militanza di Pino. E sulla vostra vita a Milano, anche paragonandola con il contesto attuale.
Sono situazioni totalmente diverse, quasi impossibili da confrontare. Un tempo c’era un clima molto più aperto, mentre oggi si ha un’impressione di estraneità, di distacco fra le persone, persino fra chi abita nello stesso condominio. Già un dialogo, un livello minimo di conoscenza, è difficile; l’idea di darsi una mano è addirittura impossibile. A questo discorso si collega pure la militanza di Pino. Alcuni mesi prima di piazza Fontana, c’erano stati altri attentati (in diverse città italiane), e già in questi casi erano stati incolpati gli anarchici. Lui si era attivato subito dopo quelle prime accuse, cercando di portare aiuto. Ricordo gli scioperi della fame, lui che andava a portare da bere a chi era impegnato in iniziative di solidarietà. Spiegare cos’era Milano e la nostra vita è davvero difficile. Quel che voglio farvi capire è che se oggi i rapporti interpersonali si mantengono al minimo essenziale, all’epoca era diverso. All’epoca io battevo a macchina le tesi per diversi studenti, quindi casa nostra era sempre aperta e piena di ragazzi, ricordo la sensazione di avere sempre gente da noi. Quegli studenti venivano per le loro tesi, quindi anche in quel caso in teoria ci si poteva limitare a un rapporto «distaccato»; invece si finiva col parlare di tutto, anche e soprattutto di politica, perché pure quella faceva parte della vita, e il confronto era normale. È vero, erano tempi di conflittualità molto dura, ma c’era un atteggiamento aperto verso l’idea stessa di politica. Pino, poi, figuriamoci!… Non gli pareva vero di poter intavolare una discussione su quegli argomenti; appena entrava in casa e trovava uno di quei ragazzi gli diceva subito «Io sono un anarchico. Voi come la pensate?». Finiva spesso che io facevo da mangiare per tutti e con noi si fermavano anche quegli studenti. Era una vita allegra, malgrado le difficoltà, le bambine piccole, il suo stipendio bassissimo. Ecco, questo mi dispiace: mi chiedevate di Milano come città, e io oggi la ricordo buia, scura, quando ci penso la vedo d’inverno, il cielo coperto come oggi. Probabilmente perché il ricordo di Milano di quell’epoca lo associo e si sovrappone proprio a quei giorni di dicembre 1969. (…)
Dobbiamo chiederti «del fatto». Tu come e quando ne vieni a conoscenza?
Dobbiamo fare un passo indietro, prima di parlare della notte del 15 dicembre. Dobbiamo partire dal 12, dal giorno di piazza Fontana. Pino viene invitato in questura, non viene arrestato. Addirittura segue l’invito accodandosi all’auto della polizia col suo motorino, senza nessuna coercizione. Nessuno mi telefona per dirmi che Pino è stato chiamato in questura, lo vengo a sapere qualche ora dopo, quando la polizia viene a casa nostra per una perquisizione. In quel momento io non solo non sapevo che mio marito era in questura, ma non ero a conoscenza nemmeno della bomba alla Banca dell’agricoltura, semplicemente perché avevo il televisore rotto e non avevo sentito i notiziari; per cui anche la perquisizione mi capita come una cosa strana, scioccante… Ricordo i poliziotti che rovistavano per casa, probabilmente alla ricerca di qualcosa di compromettente, e sono finiti con lo scartabellare fra le tesi (i ragazzi spesso me ne lasciavano una copia per ricordo, una volta finita). Fra questi lavori ce n’era uno che attirò l’attenzione dei poliziotti. Adesso non saprei dirti con sicurezza di cosa si trattasse: forse era sulla rivoluzione francese, oppure sull’epoca in cui c’era stata una rivolta contro lo Stato Pontificio nelle Marche, qualcosa del genere… Sta di fatto che gli agenti all’inizio pensavano di aver trovato chissà quale documento rivoluzionario! Spiegai che era una tesi, che io le battevo a macchina per lavoro, e uno di loro mi chiese «ma lei lavora per hobby o per bisogno?». Credo d’averlo guardato con ben poco rispetto: a quell’epoca, coi pochi soldi che giravano, uno lavorava proprio per hobby!… Ecco, ho questo ricordo della perquisizione: io che continuo a brontolare mentre i poliziotti giravano per casa. Poi, ancora più tardi, arrivò la telefonata di Pino: mi disse solo che era in questura, c’era tanta gente e avrebbe tardato. Anche se era un momento drammatico, non fu una telefonata allarmante, ma rassicurante.
Tu riuscisti a vederlo, in quei giorni?
No, però ci riuscì mia suocera il giorno dopo, il 13 o forse il 14. Dopo la perquisizione, o dopo la telefonata di mio marito, l’avevo chiamata, le avevo spiegato la situazione. Tra l’altro proprio il 12 Pino aveva appena ritirato la tredicesima, per cui lei andò di persona in questura a farsela consegnare. Era anche un modo per vederlo ed essere rassicurate.
Licia, scusa la domanda, ma con tutto quello che è accaduto, negli anni successivi ti è mai venuto di pensare che la sua attività politica era la causa di quanto vi era successo? Hai mai pensato (irrazionalmente, magari) a una sorta di «rimprovero» verso tuo marito?
No. Esiste il libero arbitrio… Capisco quel che volete dire, ma direi di no, non ho mai avuto quel pensiero. Vedi, per spiegarti bene questo aspetto devo fare un passo indietro nel tempo. C’è stato un momento, prima della militanza di Pino (prima della «militanza attiva», intendo, visto che lui comunque era ed è sempre stato anarchico), in cui avevamo le due bambine piccole, io avevo mille lavoretti, le tesi eccetera, e Pino sembrava dibattersi in quella casa che sembrava così stretta. Io allora lo incitavo a trovarsi degli interessi al di fuori della vita familiare. Gli dissi «perché non vai dagli esperantisti, perché non riallacci quei rapporti?», visto che noi ci eravamo conosciuti nel ’52, proprio a scuola di esperanto, e ricordavamo quell’ambiente come una bella esperienza. Lui accolse il mio consiglio… Solo che, invece di andare dagli amici di esperanto, andò a trovare gli anarchici del circolo. Scelse la sua passione più vera, la politica: come potrei rimproverarlo, anche irrazionalmente? No, non posso parlare di sue colpe, né di miei ripensamenti sulle sue scelte.

La notte fra il 15 e il 16 dicembre, che Pino è precipitato dalla finestra lo vieni a sapere dai giornalisti…
Sì, vengono a bussare da me verso l’una. Io, le bambine e mia suocera eravamo già a letto. Te lo dico perché in seguito ci fu persino chi disse che dormivo con un amante. Non è una cosa poi così strana: se devi infangare una vittima è meglio infangare anche i suoi parenti… Comunque sono andata ad aprire e ho trovato questi due giornalisti. Sembravano affannati, dopo 4 piani di scale senza ascensore, e soprattutto davano l’impressione di farsi forza l’un altro, cercavano le parole per dirmelo: «sembra che suo marito sia caduto da una finestra». Gli chiusi la porta in faccia e mi precipitai a telefonare alla questura. Chiesi di Calabresi e me lo passarono. Dissi che c’erano due giornalisti alla mia porta, gli riferii cosa m’avevano detto, chiesi perché non m’avevano avvertito. «Sa, signora, noi abbiamo molto da fare», mi rispose… Non so se gli ho detto ancora qualcosa, sicuramente gli ho sbattuto la cornetta in faccia. Dalla questura non seppi nulla: mentre Pino era all’ospedale, invece di chiamarci loro avevano indetto la famosa conferenza stampa… Mia suocera si vestì e si precipitò all’ospedale, al Fatebenefratelli. Io dovevo aspettare, c’erano le bambine da guardare, non avevo altra scelta. A tanti anni di distanza i ricordi sono confusi, ma rammento bene mia suocera, alla sua età e senza una lira in tasca, precipitarsi in piena notte all’ospedale, dove nessuno le dice nulla, dove non le fanno nemmeno vedere il figlio. Mi telefonò dall’ospedale, dicendomi che c’era un sacco di polizia e non la facevano passare. Poi mi disse «non so cosa sta succedendo, ma temo che…». Aveva capito che era morto perché aveva visto un inserviente tirare fuori i moduli.
La tua reazione quale fu?
Dopo un po’ ero riuscita a far portare via le bambine, che si fecero svegliare e vestire senza dire nulla. Sempre quella notte, o poco più tardi, arrivarono a casa mia Camilla Cederna, Stajano, un dottore dell’università cattolica per cui avevo lavorato (che sulla vicenda in seguito scrisse un lungo articolo sull’ Europeo ), e qualcun altro ancora. Ad un certo punto non ce la facevo più a stare in quella stanza, volevo andarmene da sola in camera. Mi venne dietro mia suocera. Mi disse: «Vedrà, domani daranno a lui la colpa di tutto». «Va bene», risposi, «ma ci siamo anche noi, con cui dovranno fare i conti». Il giorno successivo, in tribunale, ricordo i capannelli di gente… C’era davvero tantissima gente, la strage di piazza Fontana e la morte di Pino avevano destato uno scalpore enorme. C’erano dei giovani avvocati, che chiedevano (loro a me…) cosa si poteva fare. «Denunciare tutti quelli che erano in quella stanza», rispondevo. E da lì comincia tutta la storia delle varie istruttorie, che è finita come sai…
Licia, tu hai letto il libro di Mario Calabresi (figlio del commissario), «Spingendo la notte più in là»?
No. Non voglio leggerlo, non m’interessa. Non potrei mai riconoscermi in quel testo. A volte penso che c’è stato un momento in cui se avessi incontrato per strada la vedova, con i bambini, forse avremmo potuto parlarci, avere un rapporto. Ma così, con tutto quello che è successo, no. C’è una distinzione netta, fra noi. Io ho avuto la netta impressione che Calabresi eviti di affrontare la storia di Pino, se non di striscio, e questo mi ha dato fastidio. Capisco l’esigenza di difendere la memoria del padre, però penso che con quell’operazione si neghino almeno due fatti: in primo luogo che le due vicende, piaccia o meno, sono strettamente collegate; in secondo luogo che, indipendentemente dalle implicazioni sul fatto in sé, sul commissario gravano comunque responsabilità «sul dopo», sulle menzogne che raccontarono, il «Pinelli gravemente indiziato»… Direi non solo sul dopo: ricordiamo che Calabresi era titolare dell’ufficio da cui cadde mio marito. Dunque, indipendentemente dalla sua presenza, la responsabilità, anche diretta, c’era. Poi viene il resto, le menzogne su Pino gravemente indiziato eccetera… Tornando sulla presenza o meno di Calabresi nella stanza, non voglio riaprire polemiche, ma mi sembra giusto ricordare che uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti, sostenne di non aver visto Calabresi uscire dalla sua stanza prima che Pino cadesse, e successivamente confermò sempre la stessa versione: non solo non aveva visto Calabresi uscire dalla stanza, ma affermò pure che (considerata la posizione che occupava nel corridoio) avrebbe senz’altro notato se il commissario fosse uscito. Quella dichiarazione la sostenne di fronte alla magistratura, ma non fu mai chiamato a deporre nuovamente davanti a D’Ambrosio, mi disse, nel corso dell’istruttoria decisiva.
Tornando alle menzogne successive alla morte di Pino, alla sentenza D’Ambrosio almeno una cosa bisogna riconoscerla: esclude che Pino si sia suicidato, quindi conferma che tutti quelli che erano nella stanza e dichiararono il contrario mentirono. I 4 poliziotti e il carabiniere presenti hanno avuto conseguenze?
Che io sappia no, la storia si è chiusa così. Anzi, per quanto ho saputo alcuni, se non tutti, sono stati promossi. Quando succede un fatto del genere, che vede coinvolti elementi delle forze dell’ordine, alla fine oltre a non arrivare alla verità si finisce con le promozioni. Lo stiamo vedendo anche oggi, per i fatti di Genova.
Negli anni successivi, hai mai avuto altre notizie, anche da fonti «strane» (voci, telefonate dei soliti «bene informati») che ti facessero pensare di poter essere vicina a una nuova svolta?
Una volta mi arrivò una lettera anonima di questo tipo. La consegnai all’avvocato Carlo Smuraglia, ma non ne facemmo nulla, era una cosa totalmente delirante.
Sono passati 38 anni da quei giorni, ma ne sono passati anche 25 da quando hai raccontato la tua storia a Piero Scaramucci in «Una storia quasi soltanto mia». È cambiato qualcosa nella tua opinione circa lo svolgimento dei fatti?
Quello che penso sia successo lo raccontai innanzitutto al magistrato e te lo confermo ora. È difficile da spiegare, ma si tratta di una convinzione talmente radicata in me che la sento come si trattasse di un avvenimento accaduto con me presente; se ci penso è come se io fossi stata lì, in quella stanza. Quando sono stata interrogata da Bianchi d’Espinosa (procuratore generale a Milano, che poi assegnò il fascicolo a D’Ambrosio) mi chiese proprio quale opinione mi fossi fatta sull’accaduto, e la stessa domanda in seguito me la pose lo stesso D’Ambrosio. Risposi molto semplicemente, come rispondo a voi ora: l’hanno picchiato, creduto morto e buttato giù; oppure l’hanno colpito al termine dell’interrogatorio, facendolo poi precipitare incosciente, e questo spiegherebbe anche il suo volo silenzioso, senza neppure un grido, e spiegherebbe pure che dei 5 agenti solo uno (il carabiniere) si precipita giù per accertarsi delle sue condizioni. Di questo racconto sono convinta ancora oggi. Alla tesi del suicidio, poi, non ho mai creduto. Pino non l’avrebbe mai fatto, era un’eventualità che non ammetteva. Una volta avevamo parlato di una ragazza che conoscevamo, che aveva tentato il suicidio, e lui era stravolto. Non era una scelta che concepiva, amava la vita, non l’avrebbe mai fatto.

 

Le “torture normali” del fascismo

 
Si dimentica spesso
che in Italia vi è stata una continuità istituzionale tra fascismo e
repubblica. Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti in servizio
erano stati funzionari sotto il fascismo. Lo stesso valeva per tutti
(tutti…) i 135 questori e per i loro 139 vice. Poi, dopo il
’68, vennero le stragi.




Ricordando questo dato in un interessante articolo sul revisionismo di Pansa e La Russa, TIC trascrive fra l’altro un brano dalla Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi di Paul Ginsborg riguardante l’amnistia che mandò liberi tutti i fascisti nel 1946:




“Proposta per motivi umanitari, l’amnistia sollevò una valanga di
critiche. Grazie alle sue norme sfuggirono alla giustizia anche i
fascisti torturatori. Venne stabilita una distinzione grottesca e
disgraziata tra «torture normali» e «sevizie particolarmente efferate».
Con questa formula i tribunali riuscirono ad assolvere crimini quali lo
stupro plurimo di una partigiana, la tortura di alcuni partigiani
appesi al soffitto e presi a calci e pugni come un sacco da pugile, la
somministrazione di scariche elettriche sui genitali attraverso i fili
di un telefono da campo. Per quest’ultimo caso la Corte di Cassazione
stabilì che le torture «furono fatte soltanto a scopo intimidatorio e
non per bestiale insensibilità come si sarebbe dovuto ritenere se tali
applicazioni fossero avvenute a mezzo della corrente ordinaria». Alla
fin fine l’unica effettiva epurazione fu quella condotta dai ministri
democristiani
contro i partigiani
e gli antifascisti che erano entrati nell’amministrazione statale
subito dopo l’insurrezione nazionale. Lentamente ma con determinazione
De Gasperi sostituì tutti i prefetti nominati dal Clnai con funzionari
di carriera di propria scelta. E nel 1947-48 il nuovo ministro
democristiano degli Interni, Mario Scelba, epurò con sveltezza la
polizia dal consistente numero di partigiani che vi erano entrati
nell’aprile 1945”.

Dalle comunità resistenti alla sovranità territoriale dal basso per la messa in comune; appello per una due giorni di confronto

Assieme ad altre realtà del pistoiese abbiamo partecipato
alla stesura di un appello per una due giorni di discussione/confronto
sulle comunità resistenti le loro potenzialità, il loro rapporto con i
comitati e con i movimenti.
L’appello è stato scritto da teste di area diversa, quindi alcune parti
possono non essere totalmente condivisibili, resta il fatto dell’importanza
e delle potenzialità di quest’incontro.
sotto il testo della mail che sta girando e, cliccando sul link, il testo integrale
dell’appello.

Evjenji Vasil’ev Bazarov.

Da più parti si sente l’esigenza di costruire quella che potremmo
chiamare una grande Assise nazionale/Stati generali delle comunità
resistenti, dei comitati popolari, delle reti, delle realtà impegnate
contro le precarietà : del lavoro, dell’ esistenza, dell’ abitare, dei
beni comuni.
L’ Appello che inviamo in allegato, propone un incontro nazionale da
tenersi a Pistoia Sabato 25 e Domenica 26 Ottobre.
Un incontro che vuole essere aperto alle diverse istanze, nel rispetto e
nell’accettazione dei differenti percorsi, delle diverse esperienze, dei
molteplici approcci.
Partiamo dalla consapevolezza che è necessario, per l’ insieme del
movimento, avviare una riflessione approfondita sul senso e sul significato
delle lotte e dei conflitti progettuali in atto, sulle
loro potenzialità e sui loro difetti/limiti, partendo dalle esperienze di
lotta, autogestionarie e autorganizzate e dalla necessità primaria di
difendere l’ autonomia dei soggetti e dei
movimenti.
Per rispondere alle sfide che ci pongono l’instabilità strutturale della
globalizzazione neoliberista, la nuova estesa e distruttiva
infrastrutturazione del territorio, le tante nocività, ecc…occorre
avviare un processo di ripotenziamento e di rafforzamento, e cercando di
costruire il passaggio dalle resistenze alla sovranità territoriale
fondata sulla reale autonomia dei movimenti e sulla sua difesa.
“Dalle comunità resistenti alla sovranità territoriale dal basso, per
la messa in comune” questo l’orizzonte che proponiamo alla discussione
e al confronto
Una parte dell’Appello contiene materiali preparatori per la discussione
ed il confronto, certamente parziali e non esaurienti.
Ci scusiamo in anticipo per la lunghezza del contributo preparatorio.
Collettivo Liberate gli Orsi, Pistoia
Assemblea ex presidio permanente “Giulio Maccacaro” per la chiusura
dell’ inceneritore di Montale.

APPELLO, CLICCA PER SCARICARE