Controllo sociale: “Così in ordine”, un testo di Finimondo su RFID e autocontrollo volontario

«La vita si espone alle intemperie.
La strada è nera per il vagabondo.
Le stelle lo guidano, si dice.
Senza dubbio, ma verso quale riparo?»
Stig Dagerman
Alcuni anni fa, nel corso di una intervista, ad una celebre e non più giovane rockstar newyorkese fu domandato se non avesse paura a vivere in una metropoli così violenta. Stupito, il cantante rispose: no, nient’affatto. C’era nato e cresciuto in quella città, la conosceva, ci era abituato e sapeva tenerla a bada. Ciò che lo spaventava, semmai, era ben altro. Ad esempio, ricordava il panico che lo assalì in Svezia quando, fermo davanti a un semaforo rosso con il motore dell’auto acceso, si accorse di essere stato circondato dagli altri automobilisti scesi dalle loro vetture (rigorosamente spente). Intendevano tutti chiedergli conto del suo comportamento perché in Svezia, davanti al semaforo rosso, bisogna spegnere il motore della macchina; altrimenti sono guai. «Ecco — disse la rockstar — quello mi terrorizza! La violenza, no».

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Tecnologia | Controllo Sociale – La rivolta degli smartphone

Riceviamo e diffondiamo un testo di critica della tecnologia prodotto da nemici e nemiche del tecnomondo in quel di Padova, a proposito di una “mobilitazione” che ha preso forma circa un mese fa a Budapest. Partendo da questo avvenimento, si carca di criticare l’utilizzo dei dispositivi tecnologici al fine di trattarli per quello che realmente sono: strumenti di alienazione e controllo in mano al dominio per soffocare e reprimere gli individui e la loro libertà.

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Clochard, Potere, margini…qualche riflessione

baratroBruciano i “barboni”, bruciano…e immancabilmente scende in campo la lacrimevole ipocrisia borghese che li dipinge come poveri cristi persi in una marginalità indirettamente presentata come stato di natura. Nessuno, nessuno che, dai vomitevoli schermi tv, si sogni di affrontare anche di sfuggita le cause reali, fuori da ogni mitologia pietista, che creano uno stato di cose che di naturale ha poco o nulla…

Non si risolvono i problemi con il pietismo televisivo, né con la carità dei programmi di recupero, ma è necessario mettere in discussione e attaccare direttamente quelli che sono i gangli vitali delle strutture di dominio e sfruttamento.

Non è la “natura” che crea il margine, ma il potere che per costituzione non è che potere escludente, creatore di margini appunto, di confini, che non delimitano come si potrebbe erroneamente pensare i limiti dell’autorità, bensì il baratro, ogni volta rimodulabile secondo le contingenze del potere, oltre il quale il “cittadino” si trasforma in diseredato, clochard per i politicamente corretti, barbone per i più spicci. Quel baratro che serve da memento mori da scagliare in faccia alle persone ogni qual volta il fermento sociale spinge verso la trasformazione della rivendicazione da mera manifestazione simbolica di dissenso a reale possibilità di rivolta contro lo sfruttamento costituito (autorità, dicono alcuni). Ovvia tutta l’importanza che l’accento mediatico, l’enfatizzazione televisiva hanno nella poiesi della paura come “freno” sociale.

L’ostentazione del margine, in questo senso, diventa necessario strumento della conservazione dello status quo; la ripetizione ossessiva del mantra della povertà, dell’aumento delle percentuali d’impoverimento lungi dal voler porre la questione  nella sostanza, servono altresì come minaccia incombente sul capo dei singoli individui, come una sorta di metodo mafioso di deterrenza alla rivendicazione fattiva delle proprie esistenze in luogo di un’aquiescente rassegnazione del proprio ruolo di strumento della produzione.

La paura di passare dal ruolo di spettatore dello show della marginalità ad attore della propria tragedia (a sua volta spettacolo per altri) è un deterrente (non l’unico, ma di questo ora stiamo trattando) molto efficace nei confronti della possibilità di una reale e decisa presa di possesso della propria esistenza. La “pace sociale” dev’essere tutelata non in funzione del “quieto vivere” dei membri della comunità, ma per garantire una più sistematica e scientifica organizzazione dello sfruttamento.

La povertà, il “barbone”, diventano lo spettro, la possibilità nascosta dietro l’angolo della rivendicazione non simbolica. Il Clochard è l’immagine riflessa nello specchio della possibilità.

Il problema della povertà, della marginalizzazione, non possono e non potranno mai essere risolti da una sovrastruttura autoritaria di dominio perché strumento necessario a motivare la propria esistenza ed il proprio ruolo di argine al “chaos sociale”. Il margine è lo spauracchio, l’arma, il babau, è una paura, una delle tante, utilizzate da un potere permeante, capillare, veicolato in mille maniere diverse e subdolo, molto più subdolo ogni giorno che passa, per mantenere il proprio privilegio e ritardare quanto possibile lo scoppio della rabbia sociale.

Ma com’è facilmente intuibile la “marginalizzazione” non è e non può essere la “soluzione finale” contro le possibilità della rivolta. E’ ovvio che le dinamiche stesse dello sfruttamento  -ed è sotto gli occhi di tutti- porteranno nel medio periodo (o prima, chissà…) ad un’esplosione generalizzata di rabbia che non potrà più essere affrontata se non nei canonici metodi di ogni regime (che si dica democratico, dittatoriale o religioso poco importa), ovvero con il ricorso alla repressione militare su larga scala (e nel piccolo universo dell’anarchismo la conosciamo già bene). La “marginalizzazione” ha però un’importanza, il cui peso è ancora da valutare, nel “prendere tempo” e nel dare così la possibilità agli studiosi del controllo sociale e della repressione di mettere a punto gli strumenti più utili, in un futuro più o meno prossimo, per gestire le rivolte che ineluttabilmente scoppieranno.

E’ quindi necessario, se non si vuol piangere dopo su quel che poteva o doveva essere, affrontare IMMEDIATAMENTE la sfida del margine, senza tentennamenti, ed è necessario farlo rifiutando a priori di utilizzare metodi e strutture mutuate dal sistema stesso che si combatte, pena il rischio -ma è qualcosa più di una semplice eventualità- di riproporre con diverso nome ma nella stessa sostanza ciò che si voleva abbattere. Non si tratta di sostituire potere a potere, autorità ad autorità, siano essi seguiti dal suffisso popolare o cose del genere, ma di rifiutare, di distruggere queste categorie nate in seno all’organizzazione dello sfruttamento per creare qualcosa di diverso, che sia divenire e non struttura nata a priori, non teoria che si fa realtà (con tutto quel che di tragico può conseguirne in termini di “guardie rivoluzionarie”, polizie segrete, ecc…) ma realtà e teoria che si intrecciano e contaminano nella creazione di un (in)pensato che si fa presente.

Rifiuto della gerarchia, impegno individuale, orizzontalità dei rapporti, svuotamento di senso del concetto di autorità, dell’idea di capo e di guida, questi sono elementi utili alla creazione di un orizzonte che sia altro rispetto al quotidiano di asservimento nel quale siamo costretti a vivere; chiunque proponga il contrario, chiunque proponga mitici periodi di transizione che ripropongano pizzi e vecchi merletti è o un ingenuo o ducetto in potenza.

L’incentivo all’azione diretta, all’autogestione e all’autorganizzazione ci devono vedere in prima fila; così come il rifiuto del ruolo di “guida” (un’autorità mascherata). La messa in pratica quotidiana delle idee che quindi si confrontano e compenetrano con le contingenze reali e non con quelle immaginate/codificate nei tomi -sorta di bibbie laiche- da fini immaginatori di mondi. Pratica e idea devono essere facce della stessa medaglia, pena il resuscitare di vecchi spettri in nuove salse. La guerra -perché di questo si tratta- è aperta e tutti la stiamo già combattendo, volenti o nolenti. Si tratta quindi di dare il meglio di noi.

mArco.