L’uomo di marmo – di Andrzej Wajda

Il film, ambientato nella Polonia di fine anni ’70, parla di una laureanda in cinema che come sua tesi decide di girare un documentario sulla vita di Birkut, un operaio “campione del lavoro” negli anni ‘50, eroe della propaganda comunista che poi, quasi da un giorno all’altro scompare dalle cronache, fagocitato dall’oblio della storia. Di lui rimangono solo qualche filmato ed un’enigmatica scena, unica testimone della caduta, nella quale il suo ritratto viene tolto dal pantheon dedicato appunto a questi campioni.

La ricerca della giovane, archetipo in certi casi quasi caricaturale della nuova gioventù polacca che comincia in qualche misura ad assumere in sé i nuovi “valori” d’oltre cortina (il jeans diventa qui un simbolo profano d’occidentalismo) non è facile, Birkut è diventato come un fantasma consegnato all’oblio delle memorie, tanto da risultare molto difficile anche solo riuscire a sapere se sia vivo o morto. Non voglio approfondire ulteriormente la trama del film, che evidentemente va visto, mi limiterò quindi a qualche considerazione legata soprattutto al significato di questa pellicola, che attraverso l’occhio del regista è riuscita a fotografare in maniera sorprendente sia quella che era la situazione sociale di quegli anni in un paese dominato da un regime comunista, sia il prossimo futuro, che si sarebbe palesato di li a poche decine di anni con la “vittoria” dei paradigmi occidental/capitalisti.

Il film alterna scene contemporanee a stralci di vecchi filmati di propaganda, il ritmo frenetico impresso ai movimenti ed ai dialoghi della giovane protagonista si contrappongono e si integrano con i ritmi dell’idustrializzazione forzata mostrata negli spezzoni di pellicola in una sorta di frenetica rincorsa ad un futuro in entrambi i casi sconosciuto ed affascinante.

È palese in questo lavoro la denuncia dell’oscurantismo di regime rappresentato attraverso l’opera di cancellazione della memoria e della difficoltà nel reperire anche un minimo tassello che permetta di ricostruire le vicende di un individuo assurto agli allori dal niente e con la stessa velocità consegnato all’oblio delle memorie, com’è altrettanto lampante di come attraverso le vicende narrate (e la stessa uscita del film) si rappresenti non un apertura “democratica” alle voci discordi e non allineate, ma piuttosto  un segno dell’aprirsi delle prime crepe nell’impianto autoritario sovietico; ma a saper leggere più a fondo le immagini ed i personaggi si può intravedere anche un monito nei confronti dei nuovi (dis)valori veicolati dalle influenze occidentali infatti l’atteggiamento frenetico del la giovane regista, il suo ricercare elementi utili alla propria ricerca anche a discapito dei sentimenti altrui (indicativa in questo caso la visita a casa dell’ex moglie di Birkut), il suo voler raggiungere l’obbiettivo ad ogni costo sono il presagio di un futuro prossimo venturo nel quale una nuova dittatura, più subdola, si sta preparando. Un film decisamente anticomunista ma che non stenta a mostrare i pericoli –poi mostratisi esatta predizione- della nuova way of life. Da vedere.